martedì 12 luglio 2016

L'impolitica femminile

L'impolitica femminile


In altra sede scriverò della disputa sul "valore politico dell'essere madre" a cui ci hanno appena fatto assistere due donne ai vertici della politica inglese, memore della polemica italiana di simile verso che ha riguardato i nostrani Bertolaso e Giorgia Meloni, passando per lo scranno da sindaco occupato dal figlio della Raggi. 
"Esibizioni"? "Stereotipi"? "Polemiche superate"? "Non parliamo di genere bensì di competenze"? "Che mi frega se è donna, l'importante è che sia brava"? (Domanda che non facciamo agli uomini, lo diamo per scontato, a ben osservare tanto scontato non sarebbe)? "Che mi frega se sia madre?" (E poi in realtà su quello stereotipo o negazione dello stereotipo cadono le teste) e chi più ne ha più ne metta.
Sembrerebbe "non fregare a nessuno" epperò i fatti indicano altro: il rapporto donne, politica, maternità è un nervo scopertissimo e non risolto, come la fai, anzi, come la dici, sbagli.
Ci rifletterò qualche giorno prima di scriverne ancora...mentre rifletto e cerco mi ritrovo in rete.
Scrivevo sei anni fa l'articolo che segue. Scadeva il primo mandato Napolitano e, al solito, si affacciava l'ipotesi della candidatura femminile per la Presidenza della Repubblica.



giovedì 11 aprile 2013


Mila Spicola: l'elezione del Presidente questione di competenza sì, ma anche di rappresentanza

L’elezione del Presidente della Repubblica non è una questione di genere ma di competenze. 
"Vero, concordo", scrive oggi Mila Spicola; ma poi ci racconta una cosa: 
In una delle mie classi, un paio di anni fa, le ragazze erano 19 e i ragazzi 10. Dovevano eleggere il rappresentante e giustamente Mario disse: “Se io mi candido voi mi votate anche se son maschio e voi femmine siete di più?” 
Il dibattito fu accesissimo e le proposte molteplici. Tra cui persino l’ipotesi di proporre alla preside di riequilibrare il numero di ragazzi e ragazze nella classe. Si addivenne a una rosa di candidati proporzionale al genere e poi al criterio, in seno a quella rosa, della libera scelta. Era una seconda media, età dei ragazzi e delle ragazze 12/13 anni sulla carta, ma come saggezza di proposizione del problema molti ma molti di più. Una piccola e normale classe di saggi, non sempre saggi attenzione, perchè in fondo sempre ragazzini erano e vari e mutevoli come ciascuna categoria dell’umano consesso. 
Ma in quell’occasione la domanda di Mario mi stupì, tanto che avevo deciso di farne azione didattica e di dedicar alle loro discussioni un’ora intera delle mie misere due settimanali, con richiesta alla collega dell’ora successiva di farli continuare.

Dunque l’elezione del Presidente della Repubblica non è una questione di genere ma di competenza.
Vero concordo. Ma di rappresentanza sì, sembrerebbe, per quanto sollevò Mario in classe. 
Vediamo di capire come è composta e con quali criteri la rosa degli elettori del Presidente.
Ad oggi persino la parte criminale del paese sembrerebbe rappresentata da alcuni inquisiti nominati tra i grandi elettori. Non so se equamente, ma c’è. Le donne invece, che devono per forza e ovviamente essere limpidissime e cristallinissime e che sono il 52% del paese, hanno addirittura una presenza di 5 donne su 58 componenti. 
Ma che volete che sia? 
Maria non sa dove alzar la mano per essere ascoltata per fare, al femminile, la domanda di Mario.
Tutti gli uomini son stati scelti col solito criterio: ci devono stare. 
Perché il meccanismo e la regola di selezione portano a loro la maggioranza. Le 5 donne con lo stesso criterio risultano minoranza. Criterio maggiorato da una clausola tacita: purché siano wonder woman.
Ovviamente questo non vuol dir nulla. L’elezione del Presidente non sarà una scelta di genere, ma assolutamente di competenza. Certo, come no. E persino a 58 uomini può capitare che, insieme a tutti i parlamentari, sceglieranno per assurdo una donna. Per assurdo, lo riscrivo.
Un  uomo vota una donna non so quanto per le sue reali e vere competenze, come farebbe una donna con un’altra donna (inciso: le donne esitano parecchio prima di votare una donna, il giudizio è spesso impietoso), ma perché per adesso fa politicamente corretto scegliere una donna, crea consenso e fa figo e nuovo.
Sapete che c’è? Fosse solo questo il motivo dei componenti uomini per scegliere una donna, e ho il fondato sospetto che solo per questo motivo saran “costretti” a sceglierla, tanto meglio.
Dopo 80 anni di Presidenti uomini e non tutti all’altezza, scegliere una Donna Presidente andrebbe bene per i prossimi 80. Valida, ovviamente. Alle donne non sia mai e poi mai perdonato di non essere all’altezza, tanto quanto lo si perdona a taluni impresentabili uomini. Anche su questo ci sarebbe molto da dire e da fare, affinché non venga perdonato nemmeno agli impresentabili, che comunque ci ritroviamo sempre là con scarsi moti di vergogna.

PS Non so se fu incredibile, casuale o normale, o cosa, ma in quella seconda  classe della scuola media venne eletto come rappresentate un ragazzo e come vice rappresentante un altro ragazzo. Salvo poi dimettersi entrambi dopo qualche mese per dare spazio alle due compagne dietro di loro e dopo qualche mese di nuovo dimissioni e rotazione. Per loro spontanea decisione. 
Alla fine dell’anno, tornando stanchi da una gita a Marsala, discutemmo in pullmann della cosa, che aveva avuto i pro e i contro, e conclusero, tra una canzone e un ci fermiamo che dobbiamo andare in bagno,  che “Comunque, sa prof? Anche questi compagni maschi son bravi!”
E ripartirono le discussioni… La vita, l’Italia, fuori da quella classe, in cui difendo con le mani e i denti i miei piccoli uomini e le mie piccole donne, è davvero un altro mondo, almeno finora e assisteremo a un altro romanzo, quello in cui, “Sai che c’è? Persino le compagne femmine son brave.” E sarà meglio di “la votiamo perché è una donna”.
Mila Spicola, 11 aprile 2013 Fonte: Donne da romanzo quirinale

sabato 2 luglio 2016

Sapere, saperi, conoscenza, conoscenze, competenza, competenze


                                                      Torre di Babele, Tobias Verhaecht

"Dio, non permettermi di giudicare o di parlare di quel che non conosco o non capisco" Anton Cechov

 Qualche riflessione su un articolo di Settis (lo trovate qui: http://www.linkiesta.it/it/article/2016/02/07/salvatore-settis-la-buona-scuola-non-e-buona-e-le-competenze-non-servo/29179/ ).


Cercherò di andare per punti e con linguaggio il più semplice possibile, anche se trattasi di temi complessi. In effetti Settis ha sovrapposto molti piani, come senso e come significato, alcuni sovrapponibili altri no, e forse è il caso di separare, definire e tornare indietro.

 Partiamo dal titolo: “la buona scuola non è buona. E le "competenze" non servono a niente” Sono due opinioni legittime, ma vanno declinate separatamente perché Buona Scuola e competenze  nascono in periodi e contesti diversi. Rimane da verificare ad esempio se le declinazioni operative della Buona Scuola disegnino una scuola delle competenze, e va ribadito a quanto pare che la “scuola delle competenze” (per approfondire basta digitare “competenze” su google) non è l’invenzione italiana di “pedagoghi nostrani” (mi auguro non fosse detto in senso riduttivo, visto che l’Italia ha regalato al mondo intero Maria Montessori e Aldo Visalberghi) ma punto di arrivo di un percorso di elaborazione comune della ricerca educativa internazionale che va dalla seconda metà del secolo scorso e per poi essere accolta da molti sistemi d’istruzione, compreso quello europeo, prima con il trattato di Lisbona del 2000 , poi con la risoluzione europea del 2006  sulla definizione delle competenze chiave (la trovate qui: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV%3Ac11090 ). Risoluzione recepita dall’italia nel 2007 sotto il governo Prodi, con il decreto sulle competenze chiave e di cittadinanza.  Poco c’entrano dunque “Berlinguer e i suoi esperti” e ancor meno “Renzi e la Buona Scuola”, se no nella misura in cui questi governi, ma anche quelli i mezzo, si sono trovati a recepire direttive comunitarie. Va detto che tali direttive tutto son state fuorchè calate dall’alto, nella scuola, soprattutto nella primaria, tali nuovi indirizzi pedagogici erano già in corso, la ricerca ha qualità  e possibilità di diffusione intrinseche. Non serve che un governo adotti l’aspirina, se l’aspirina salva si diffonde da se. Un governo al massimo può ratificare. Direi una cosa dunque cerchiamo di analizzare termini e senso dei problemi che riguardano il mondo della ricerca educativa tenendo da parte dinamiche partitiche e di governi, se non nella misura in cui alcuni governi abbiano accolto o meno elaborazioni internazionali di tale ricerca. Semmai sarebbe da analizzare il rapporto (strutturato, non occasionale o discrezionale) tra ricerca educativo e sistema d’istruzione italiano. Abbastanza presente nella scuola primaria, completamente assente nei cicli della secondaria. Alcuni temi e problemi dunque, in buona parte degli “operatori della conoscenza”, e non mi riferisco a Settis, ma anche ai docenti, mancano persino di base lessicale comune. Questo non significa che “nessuno possa parlare di scuola”, ma che la “cognizione di causa” parte anche dalla banale intesa sui termini, ad esempio. Cosa sono e quali sono, come si maturano e come si valutano le competenze di cui si sta parlando? Sulle prime due domande qualche risposta il comune cittadino la può trovare  (e dovrebbe cercarla) nel riferimento normativo linkato poco più su. Sul come si maturano e come si valutano invece c’è grande fermento, molte riflessioni, molte sperimentazioni e credo che sia una delle cose più profondamente innovative dal punto di vista epistemologico che stia attraversando in ogni angolo del pianeta la scuola, e dunque,  la società (per chi volesse approfondire: Philippe Perrenoud, Costruire competenze a partire dalla scuola, Anicia, Roma, 2010, tit. orig. Construire des compétences dès l’école, ESF, Paris, 2000, di cui trovate una piccola recensione di Enrico Bottero qui:  http://www.enricobottero.com/insegnare/wp-content/uploads/2013/11/Philippe-Perrenoud.Competenze-allievi1.pdf )
2.      Ancora sul titolo: le “competenze non servono a niente”. Esattamente il contrario, lo sforzo di definizione del concetto di competenza punta proprio a rispondere a una domanda: i saperi, nell’era della società della conoscenza, servono? E’ una domanda filosofica per eccellenza, che ci facciamo da secoli, quel che è mutato è il mondo e dunque la risposta si colora di altri significati. Questo non significa piegare all’utilitarismo Cultura e Sapere, ma cercare di declinare in chiave filosofica ed epistemologica non la scuola bensì il significato di “società della conoscenza”, perché è questa la novità. Tale significato si arricchisce a sua volta di sensi nuovi, vista la rivoluzione metafisica e gnoseologica che permea di se ogni angolo della Terra, che è il divenire, non l’essere: il Sapere e la Cultura non più come patrimonio fisso ma patrimonio in divenire, infatti non si sceglie un altro termine, Sapere, bensì Conoscenza, cioè l’atto, non l’oggetto. Il verbo, e chi l’agisce, e non il complemento oggetto. Si comprende bene la complessità e la moltitudine di conseguenze. E allora, per tornare alla frase iniziale: possiamo dire che il Sapere e la Cultura non servono a niente, non devono servire a niente, perché devono continuare a rimanere libere da ogni declinazione utilitaristica, mentre è proprio il concetto di competenza a venirci in soccorso,  a interrogarci su quali implicazioni (non strumentalizzazioni utilitaristiche) hanno Sapere e Cultura, o meglio, saperi e culture, con la vita stessa, individuale e collettiva, se tale vita oggi è definita come conoscenza (e non era mai accaduto prima, cioè che tutti, non le elites, potessero sedersi in modo pari, al banchetto delle formazioni e informazioni) e dunque in tal senso interrogarsi sul come gli individui, a prescindere da latitudini e longitudini, possano servirsene per vivere? Attenzione, servirsene non in chiave liberista, perché questo è il secondo equivoco, ma in chiave di cittadinanza attiva, cioè in chiave politica, cioè per prendere decisioni. E’ la sfera della libertà individuale nella responsabilità collettiva. Questo sono le competenze chiave. 



3.      Esiste la vita delle idee ed esiste la vita quotidiana, ed esiste la vita activa, di cui parlava la Arendt, cioè la partecipazione politica, le prime due cementate dai valori, da cui oggi nessuno si sente escluso, perché ti viene a scovare ovunque ti nascondi. Le tre cose, idee, vita individuale (e per chi scrive significa lavoro) e politica, sono unica cosa. Sapere, sapere fare e sapere decidere, per chi scrive, rientrano in un unico processo, senza sapere non c’è decisione e non c’è sapere fare e, viceversa, senza sapere fare, non c’è sapere. Mi piacerebbe discutere e ampiamente e in ogni sede, di questo assunto filosofico. Anche nella sua declinazione politica e sociale, perché le conseguenze sono parecchie e tutte da indagare insieme. Significa indagare il valore concreto dell’idea, vogliamo usare l’aggettivo organico? Significa riunire in un unico percorso homo sapiens e homo faber. Significa entrare nel terreno accidentatissimo del definitivo superamento della filosofia crociana che informato di se tutto il 900 per percorrere nuove vie. Concetti che si integrano con la definizione di “virtuale” (leggi digitale, leggi Levy). Possiamo discutere poi sulla opportunità o meno di superare la filosofia crociana, ma almeno fissiamo paletti comuni di confronto, non parole dette così a casaccio. Significa affrontare, essì, questo è,  in termini di cultura e riflessione politica il rapporto tra cultura e cultura del lavoro (la parte del faber nettamente separata dal sapiens), conflittuale nel 900. Conflitto che ha avuto valenze sociali, storiche, politiche, eccetera, eccetera, eccetera. Cosa c’entra tutto questo ragionamento con la scuola credo che sia chiaro a Settis. Quando il grande Visalberghi teorizza la scuola media unica è esattamente questa via quella che prepara. Quando la mai tanto osannata Montessori intuisce che la “manipolazione” favorisce gli apprendimenti, questo fa. “L’uomo pensa perché ha una mano”. O ha una mano perché pensa? Ha senso rispondere all’una o all’altra domanda? Pensare è agire, e agire è pensare. Vanno insieme, eppure per troppo tempo li abbiamo tenuti distinti, e anche in poche mani. Pensare e decidere staccati dall’agire e dal lavorare: ragioniamoci insieme e chiediamoci dove siano le vere radici delle diseguaglianze. . Semplicemente oggi si uniscono strade che secoli di storia culturale, sociale e politica avevano separato: il sapere dal saper fare. E tutti rientrano in questo processo. Vogliamo dare un nome e declinarlo in ogni classe e in ogni banco? Si chiama competenza. Le due grandi categorie dell’apollineo e del dionisiaco, illuminismo e romanticismo, idealismo e positivismo, il prevalere ora dell’una ora dell’altra categoria, oggi si fondono. O meglio, domanda: oggi si fondono? Di questo vorrei discutere ampiamente con Settis. Per forma mentis, sono architetto, non riesco a separare il Sapere dal saper fare e a dare ad entrambi pari dignità. Anche se conosco la dolorosissima “messa a terra dell’idea” e il mare periglioso che separa l’idea, dal suo progetto e dal suo farsi opera. Ma i tre momenti, professor Settis, secondo lei possono superarsi o separarsi? Possono tenersi separati? E, infine, una discussione così complessa ed epocale, me ne renda atto, può banalizzarsi nei termini di una trattazione cronacistica?



4.      Trasportiamo tutto questo nella scuola, per tentare di venirne a capo, perché di scuola stavamo parlando. Il mondo della scuola, come dicevo più su, a prescindere dai governi, da Renzi o da me o da Settis, sta vivendo con grande dignità devo dire e sola (il mondo accademico della ricerca educativa si guarda bene dall’entrare e vivere anche solo per qualche ora le classi ) questi mutamenti epistemologici e filosofici che riguardano l’umanità in questo momento, e come potrebbe esimersi, è lo spirito del tempo, non lo ferma nessuno. Lo Zeitgeist attraversa la società e la scuola è il più grande sottosistema sociale che esista. Paroloni? No, realtà. Il Sapere è fatto di saperi, le discipline, e fin qui ci siamo, ma oggi le discipline non sono più né monadi, né edifici con pareti in muratura, né cittadelle, come il positivismo migliore, e l’encyclopedie ad esso collegata, ci avevano abituato a considerare. I settori disciplinari, a cui larga parte dell’accademia è aggrappata mani e piedi come granchi allo scoglio, vivono ormai in astratto come entità distinte, in realtà, ma fuori dall’accademia sta accadendo altro. Sono frattali. E nemmeno quello. Sono soluzioni gassose. E nemmeno quello. Sono qualcosa che non riusciamo più a contenere nel libro di testo, anzi, nei diversi libi di testo, e nella classe e nemmeno nei processi, cioè nella trasmissione dei contenuti. E’ saltato tutto e alcuni fanno finta di non vedere e non capire, anche se è veramente difficile non vedere e non capire. Il concetto di competenza è una zattera in questo momento, in cui la formazione duella quotidianamente con la tempesta delle informazioni. Informazioni che mutano di momento e momento, recando con se, grande come l’universo intero il problema delle verità nella verità. Che non è la messa in discussione dei saperi, ma la capacità di governare la messa in discussione. Potevamo chiudere porte e finestre per evitare quel duello, ma ci è arrivato e ci arriva quotidianamente sulle gambe dei nostri studenti e delle nostre studentesse. Non sono isolati nel villaggio e intorno una foresta fittissima li separa dal mondo. No, sono immersi in quel flusso e ci sono nati e se ne sono fatti persino una ragione, quella zattera la guidano meglio di noi, ma la direzione? Esiste o forse no, un’etica del Sapere, che può permettersi di ignorare tempeste e contaminazioni, per motivi intrinseci e metafisici, ma esiste, e questo è solo un sì, un’etica dell’insegnamento, e questa non può ignorare nulla. 






5.      E’ un’idea perversa sostituire la parola “conoscenza” con “competenza”, come è stato fatto dai pedagogisti alla nostrana, consultati da Berlinguer e dalla Moratti” scrive Settis. Come detto sopra, e lo ridico, perdonate l’insistenza, il tema delle competenze non è nostrano, di “pedagogisti alla nostrana”, ma è internazionale, è un tema della ricerca educativa, fossi in Settis, o in altri, lo approfondirei (per un’indicazione: la banca data Eric interrogata alla voce “skills” ) perché è un tema molto ma molto fertile, oltre che precondizione per comprendere tanti indirizzi dei sistemi educativi sparsi per il globo, ma anche per comprendere direzioni del pensiero. La Comunità Europea alla fine degli anni 90 del secolo ormai passato, decide di autodefinirsi come “società della conoscenza”, questo non significa che l’utilitarismo cancellerà il sapere, ma esattamente il contrario, che il sapere informerà di se ogni ambito della vita, non solo individuale - e dunque di se e della propria cultura ciascuno può fare o non fare ciò che meglio crede – ma anche collettivo, e tra le grandi azioni collettive ci sono le azioni di cittadinanza e il lavoro. Significa che non l’utilitarismo ma la necessità di nuove consapevolezze vince. Vince cioè l’idea. Vince la consapevolezza che per la prima volta è il Sapere a permeare di se tutto, attraverso l’uso consapevole di una sapere sempre accresciuto e in divenire. Come si è tradotto i termini operativi nel sistema educativo europeo? Con due atti legislativi (Risoluzione Parlamento Europeo Lisbona 2000 e Raccomandazione del Parlamento Europeo 18.12.2006 ). Questi due atti normativi europei sono stati recepiti dall’Italia nel 2007. Se non ci convincevano era allora il momento di dire Brexit, non adesso. Chi scrive pensa che invece l’Italia abbia fatto bene a recepire, innescando un mutamento profondo, che già c’era e nessuno lo vedeva, o vede, e ho detto anche questo, mutamento e innovazione sostanziale che andava raccontata, evidenziata, mentre si è spesso affidato ai temi giuslavoristi il tema del mutamento nella scuola, beh, io sostengo che quel cambiamento profondo è già in atto da almeno 30 anni, al confronto del quale la “buona scuola” è un riflesso, lo dice bene Perrenoud nei suoi scritti. E’ stato confinato alla scuola primaria, unico segmento ad avere come docenti dei professionisti riflessivi, cioè insegnanti dotati di conoscenze pedagogico-didattiche oltre che disciplinari (leggere Donald Schon, Il professionista riflessivo, quanto mai attuale ). E ha dato i suoi frutti, se osserviamo che quel segmento è quello che, in termini di rilevazioni internazionali delle competenze, ci mette tra i migliori. Dunque, la strada intrapresa sulle competenze ha altre origini, ha una precisa visione, internazionale e comunitaria, e le scuole l’hanno già accolta e praticata, proprio iniziando a riflettere e a operare e a fare scuola con i significati e le forme della parola “competenza (fornisco un piccolo esempio di programmazione per competenze, fatta in un istituto comprensivo, anche per far capire al lettore di cosa stiamo parlando, : http://www.comprensivofrosinone3.gov.it/wp-content/uploads/2016/03/Appunti-per-una-didattica-delle-competenze-in-chiave-di-cittadinanza-1.pdf  , ma digitando “competenze chiave” ne troviamo centomila di declinazioni operative nelle scuole del termine competenza ). Per tornare all’inizio: il concetto di competenza comprende in se il concetto di conoscenza, non è separato, né in alternativa. E’, in parole poverissime, l’abilità di saper declinare in modo consapevole nella vita il sapere acquisito, non solo è una forma di acquisizione della conoscenza, e qua, signori miei, siamo in terra montessoriana, non liberista, dunque tale sapere, e tale sapere esperito,  in qualche modo li si deve acquisire, a scuola o altrove (il 65% delle conoscenze di un tredicenne non ha fonte formale, cioè scolastica), ma soprattutto, ed qua che entra in scena l’insegnante, la guida, lo si deve saper organizzare, è dunque l’organizzazione della conoscenza, la riflessione sulla conoscenza, che è una competenza, la capacità che dobbiamo favorire nei nostri studenti, sì o no? E tale competenza, fatta di conoscenza ma che non risolve in essa, come altre competenze, la si deve maturare a scuola, non fuori della scuola, e poi accrescere progressivamente lungo l’arco dell’esistenza. Dunque non conoscenza vs competenza, ma conoscenza e competenza. Senza conoscenza non esiste competenza. E senza competenza non esiste conoscenza, la profezia di Maria Montessori si è avverata. Lungo il Novecento quelle intuizioni si sono arricchite di altre acquisizioni di pensiero connesse ai processi di insegnamento e apprendimento, dalle riflessioni sulle intelligenze multiple, alle scoperte neurologiche, che hanno messo in connessione definitiva mano e memoria, a quelle psicologiche sul ruolo dell’intelligenza emotiva nell’apprendimento e nel comportamento. Tutto concorre a modi diversi di fare scuola, di fare cultura, di produrre conoscenza, che non può più limitarsi al sapere e ai saperi e si accompagna al produrre, al cooperare, al condividere, al risolvere, al riflettere, all’organizzare, al creare. 




Un tempo alla scuola, all’università bastava fornire la conoscenza, o meglio, bastava trasmettere un patrimonio organizzato di saperi: “ se so, so fare”, grande equivoco. Il saper fare (sospendiamo per adesso l’approfondire le ragioni del pregiudizio ideologico nei confronti del saper fare esercitato dal mondo del sapere, fortissimo ancora oggi dentro il mondo accademico, un pregiudizio tutto crociano, elitario, padronale nel senso negativo del termine, che ha voluto sempre tenere perfettamente separati il mondo del sapere da quello del saper fare, pregiudizio che puzza di diseguaglianza nei confronti del quale chi scrive ha sempre nutrito aperta ostilità, convinta come sono che il più grande strumento per abbattere le diseguaglianze sia la conoscenza, quando essa però si accompagni alla virtù, cioè ai valori) era demandato a un momento successivo al tempo della formazione. Per cui la scuola era una parte della vita, il fare, in termini di lavoro, ma anche di vita vissuta, era un’altra parte dell’esistenza. Ma ciò oggi è impossibile da praticare. Già un altro visionario anticipatore della società della conoscenza, Dewey, cento anni fa diceva che l’istruzione non è parte della vita, ma la vita stessa. Oggi, in un’epoca in cui sapere e saperi mutano continuamente, è necessario apprendere lungo l’arco della vita intera, oggi, in un’epoca che gira tutta intorno alla conoscenza, è necessario mettere a frutto consapevolezza dell’apprendimento e uso dell’apprendimento, senza che ciò pregiudichi il valore o la qualità dell’apprendimento stesso, ma che sia in grado anche di metterlo in discussione con consapevolezza, affinchè l’ipse dixit non si trasformi in un “ma che cavolo sto dicendo”? O anche “non ho nemmeno compreso quel che ho votato”. Mi pare che non sia un problema liberista, ma un un problema che investe in pieno il significato di cittadinanza e di polis. Ecco, gli strumenti per maturare tale capacità si chiamano competenza e tali strumenti, io, docente, voglio che si maturino a scuola, non altrove. Perché tanto più darò valore culturale a tali strumenti tanto più gli individui che crescono saranno in grado di essere cercatori di idee, produttori di idee e padroni di idee, sempre, tutta la vita, non guardiani di macchine, magari con grandi bagagli conoscitivi, ma incapaci di agire in un mondo di macchine, incapaci di guidare le macchine.


6.      Cada dunque definitivamente l’idea  che le competenze siano sapere specialistico. Era il positivismo e la divisione in settori disciplinari di tutta la conoscenza ciò che promuoveva le specializzazioni. Anche qui, quanti equivoci. Le discipline sono specialistiche per forza di cose, e va benissimo che lo siano, i tuttologi sono da osservare con sospetto, lo diceva già Gramsci, perché vanno per approssimazioni, non per approfondimenti. Ma le competenze sono tutt’altra cosa che specialismi, perché sono capacità meta cognitive, trasversali al sapere disciplinare, sono capacità. Saper risolvere un problema della vita quotidiana non è sapere specialistico,  è applicare il sapere a problemi, e farlo con l’ausilio dei saperi specialistici (che siano le singole materie scolastiche, se trattiamo di cose generali, o che siano i singoli insegnamenti specialistici, se parliamo di ambiti specifici: cosa ad esempio che fa Settis quando si accinge a risolvere il rebus della modalità di restauro di una cinta muraria ), insegnamenti che non sono dati una volta per sempre, ma devono accrescersi e acquisirsi lungo l’arco della vita; tutto questo è una competenza maturata e maturabile. No, non sono contro gli specialisti, significherebbe essere contro le conoscenze sempre più approfondite e libere che poi “con competenza” posso applicare ai singoli problemi. Mi ostino a invitare tutti quanti a evitare massimizzazioni che fanno il paio con banalizzazioni. La grande scuola italiana si basa sugli apprendimenti, su un robusto sistema di saperi trasmessi e sugli specialisti, non li rinnegherei per nulla al mondo, perchè su questo suo trasmettere e accrescere conoscenze in modo approfondito si fa metodo. A questo edificio solidissimo dobbiamo dare anche le ali: cioè le capacità di organizzare e riorganizzare e usare i propri specialisti all’interno di un quadro generale di altre competenze in un mondo in veloce divenire. Dare le ali per non precipitare, come al castello errante di Howl. E i nostri figli non ne avranno per nessuno. Direi di più: lo abbiamo insegnato anche ai figli del mondo, attraverso quei pedagoghi nostrani che Settis sta enormemente sottovalutando, lo abbiamo inventato noi il concetto di competenza, con Maria Montessori. Magari formulato allora in altro modo. L’istruzione non è parte della vita né avulso dalla vita. E’ la vita stessa. E con la vita finalmente si mischia. Quanti, quanti equivoci, quanti problemi di lessico e quante declinazioni via via confuse dei processi conseguenti a quelle mancate precisazioni terminologiche. Eppure, notizione, le maestre e i maestri d’Italia, pedagogisti di casa nostra, lo han compreso e lo stan facendo, rimane da raccontarlo e mostrarlo al Paese, e ai cosiddetti “disciplinaristi”, agli “specialisti”; di grazia, Settis come si autodefinisce? E’ facilmente dimostrabile e le evidenze empiriche lo confermano come gli apprendimenti migliorino con le didattiche per competenze; maturano meglio nel fare, nelle contaminazioni, nelle trasversalità, nelle osmosi, nel virtuale, nulla togliendo al necessario e ineludibile approfondimento delle discipline. Oggi come sempre, l’obiettivo di un insegnante quello è: migliorare gli apprendimenti, che siano conoscenze e/o competenze.





7.      Come si risolve la Babele intorno alla scuola riguardo questi temi, oggi che finalmente la scuola è argomento di confronto collettivo ed è uscita da quell’isolamento in cui si era ed era stata confinata per decenni? In un modo semplice: studiando, studiando, studiando, e raccontandole meglio le cose, sia che siamo addetti ai lavori, sia che  stiamo facendo informazione, o riflessione. Per farlo “con cognizione di causa” bisogna però studiare e studiare e studiare, per acquisire un lessico comune e condiviso e, dopo averlo fatto, confrontarsi in modo obiettivo sui temi. Allo stato attuale siamo lungi dal confrontarci su idee diverse in modo obiettivo, perché mi pare di capire che siamo ancora nella torre di Babele e perché troppi argomenti eteronomi vizino il dibattito. Mi piacerebbe molto discuterne con Settis. Ma anche col tabaccaio sotto casa, snocciolando in modo comprensibile a tutti le questioni, per un’etica comune che è anche etica del linguaggio e che deve spingerci tutti a raccontare e raccontarsi per capire e far capire. E questo ho provato a fare e proverò ancora.