Torre di Babele, Tobias Verhaecht
"Dio, non permettermi di giudicare o di parlare di quel che non conosco o non capisco" Anton Cechov
Qualche
riflessione su un articolo di Settis (lo trovate qui:
http://www.linkiesta.it/it/article/2016/02/07/salvatore-settis-la-buona-scuola-non-e-buona-e-le-competenze-non-servo/29179/
).
Cercherò
di andare per punti e con linguaggio il più semplice possibile, anche se
trattasi di temi complessi. In effetti Settis ha sovrapposto molti piani, come
senso e come significato, alcuni sovrapponibili altri no, e forse è il caso di
separare, definire e tornare indietro.
Partiamo dal titolo: “la buona scuola non è buona. E le "competenze"
non servono a niente” Sono due opinioni legittime, ma vanno declinate
separatamente perché Buona Scuola e competenze
nascono in periodi e contesti diversi. Rimane da verificare ad esempio
se le declinazioni operative della Buona Scuola disegnino una scuola delle
competenze, e va ribadito a quanto pare che la “scuola delle competenze” (per approfondire
basta digitare “competenze” su google) non è l’invenzione italiana di
“pedagoghi nostrani” (mi auguro non fosse detto in senso riduttivo, visto che
l’Italia ha regalato al mondo intero Maria Montessori e Aldo Visalberghi) ma
punto di arrivo di un percorso di elaborazione comune della ricerca educativa
internazionale che va dalla seconda metà del secolo scorso e per poi essere
accolta da molti sistemi d’istruzione, compreso quello europeo, prima con il
trattato di Lisbona del 2000 , poi con la risoluzione europea del 2006 sulla definizione delle competenze chiave (la
trovate qui: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV%3Ac11090
). Risoluzione recepita dall’italia nel 2007 sotto il governo Prodi, con il
decreto sulle competenze chiave e di cittadinanza. Poco c’entrano dunque “Berlinguer e i suoi
esperti” e ancor meno “Renzi e la Buona Scuola”, se no nella misura in cui
questi governi, ma anche quelli i mezzo, si sono trovati a recepire direttive
comunitarie. Va detto che tali direttive tutto son state fuorchè calate
dall’alto, nella scuola, soprattutto nella primaria, tali nuovi indirizzi
pedagogici erano già in corso, la ricerca ha qualità e possibilità di diffusione intrinseche. Non
serve che un governo adotti l’aspirina, se l’aspirina salva si diffonde da se.
Un governo al massimo può ratificare. Direi una cosa dunque cerchiamo di
analizzare termini e senso dei problemi che riguardano il mondo della ricerca
educativa tenendo da parte dinamiche partitiche e di governi, se non nella
misura in cui alcuni governi abbiano accolto o meno elaborazioni internazionali
di tale ricerca. Semmai sarebbe da analizzare il rapporto (strutturato, non
occasionale o discrezionale) tra ricerca educativo e sistema d’istruzione
italiano. Abbastanza presente nella scuola primaria, completamente assente nei
cicli della secondaria. Alcuni temi e problemi dunque, in buona parte degli
“operatori della conoscenza”, e non mi riferisco a Settis, ma anche ai docenti,
mancano persino di base lessicale comune. Questo non significa che “nessuno
possa parlare di scuola”, ma che la “cognizione di causa” parte anche dalla
banale intesa sui termini, ad esempio. Cosa sono e quali sono, come si maturano
e come si valutano le competenze di cui si sta parlando? Sulle prime due
domande qualche risposta il comune cittadino la può trovare (e dovrebbe cercarla) nel riferimento
normativo linkato poco più su. Sul come si maturano e come si valutano invece
c’è grande fermento, molte riflessioni, molte sperimentazioni e credo che sia
una delle cose più profondamente innovative dal punto di vista epistemologico che
stia attraversando in ogni angolo del pianeta la scuola, e dunque, la società (per chi volesse approfondire: Philippe
Perrenoud, Costruire competenze a partire
dalla scuola, Anicia, Roma, 2010, tit. orig. Construire des compétences dès l’école, ESF, Paris, 2000, di cui
trovate una piccola recensione di Enrico Bottero qui: http://www.enricobottero.com/insegnare/wp-content/uploads/2013/11/Philippe-Perrenoud.Competenze-allievi1.pdf
)
2. Ancora sul titolo: le “competenze non servono a
niente”. Esattamente il contrario, lo sforzo di definizione del concetto di
competenza punta proprio a rispondere a una domanda: i saperi, nell’era della
società della conoscenza, servono? E’ una domanda filosofica per eccellenza,
che ci facciamo da secoli, quel che è mutato è il mondo e dunque la risposta si
colora di altri significati. Questo non significa piegare all’utilitarismo
Cultura e Sapere, ma cercare di declinare in chiave filosofica ed
epistemologica non la scuola bensì il significato di “società della conoscenza”,
perché è questa la novità. Tale significato si arricchisce a sua volta di sensi
nuovi, vista la rivoluzione metafisica e gnoseologica che permea di se ogni
angolo della Terra, che è il divenire, non l’essere: il Sapere e la Cultura non
più come patrimonio fisso ma patrimonio in divenire, infatti non si sceglie un
altro termine, Sapere, bensì Conoscenza, cioè l’atto, non l’oggetto. Il verbo,
e chi l’agisce, e non il complemento oggetto. Si comprende bene la complessità e
la moltitudine di conseguenze. E allora, per tornare alla frase iniziale:
possiamo dire che il Sapere e la Cultura non servono a niente, non devono
servire a niente, perché devono continuare a rimanere libere da ogni
declinazione utilitaristica, mentre è proprio il concetto di competenza a
venirci in soccorso, a interrogarci su quali
implicazioni (non strumentalizzazioni utilitaristiche) hanno Sapere e Cultura,
o meglio, saperi e culture, con la vita stessa, individuale e collettiva, se
tale vita oggi è definita come conoscenza (e non era mai accaduto prima, cioè
che tutti, non le elites, potessero sedersi in modo pari, al banchetto delle
formazioni e informazioni) e dunque in tal senso interrogarsi sul come gli
individui, a prescindere da latitudini e longitudini, possano servirsene per
vivere? Attenzione, servirsene non in chiave liberista, perché questo è il
secondo equivoco, ma in chiave di cittadinanza attiva, cioè in chiave politica,
cioè per prendere decisioni. E’ la sfera della libertà individuale nella
responsabilità collettiva. Questo sono le competenze chiave.

3. Esiste la vita delle idee ed esiste la vita
quotidiana, ed esiste la vita activa,
di cui parlava la Arendt, cioè la partecipazione politica, le prime due
cementate dai valori, da cui oggi nessuno si sente escluso, perché ti viene a
scovare ovunque ti nascondi. Le tre cose, idee, vita individuale (e per chi
scrive significa lavoro) e politica, sono unica cosa. Sapere, sapere fare e
sapere decidere, per chi scrive, rientrano in un unico processo, senza sapere
non c’è decisione e non c’è sapere fare e, viceversa, senza sapere fare, non
c’è sapere. Mi piacerebbe discutere e ampiamente e in ogni sede, di questo
assunto filosofico. Anche nella sua declinazione politica e sociale, perché le
conseguenze sono parecchie e tutte da indagare insieme. Significa indagare il valore
concreto dell’idea, vogliamo usare l’aggettivo organico? Significa riunire in
un unico percorso homo sapiens e homo faber. Significa entrare nel
terreno accidentatissimo del definitivo superamento della filosofia crociana
che informato di se tutto il 900 per percorrere nuove vie. Concetti che si
integrano con la definizione di “virtuale” (leggi digitale, leggi Levy). Possiamo
discutere poi sulla opportunità o meno di superare la filosofia crociana, ma
almeno fissiamo paletti comuni di confronto, non parole dette così a casaccio. Significa
affrontare, essì, questo è, in termini
di cultura e riflessione politica il rapporto tra cultura e cultura del lavoro
(la parte del faber nettamente separata dal sapiens), conflittuale nel 900.
Conflitto che ha avuto valenze sociali, storiche, politiche, eccetera,
eccetera, eccetera. Cosa c’entra tutto questo ragionamento con la scuola credo
che sia chiaro a Settis. Quando il grande Visalberghi teorizza la scuola media
unica è esattamente questa via quella che prepara. Quando la mai tanto osannata
Montessori intuisce che la “manipolazione” favorisce gli apprendimenti, questo
fa. “L’uomo pensa perché ha una mano”. O ha una mano perché pensa? Ha senso
rispondere all’una o all’altra domanda? Pensare è agire, e agire è pensare. Vanno
insieme, eppure per troppo tempo li abbiamo tenuti distinti, e anche in poche
mani. Pensare e decidere staccati dall’agire e dal lavorare: ragioniamoci
insieme e chiediamoci dove siano le vere radici delle diseguaglianze. . Semplicemente
oggi si uniscono strade che secoli di storia culturale, sociale e politica avevano
separato: il sapere dal saper fare. E tutti rientrano in questo processo.
Vogliamo dare un nome e declinarlo in ogni classe e in ogni banco? Si chiama
competenza. Le due grandi categorie dell’apollineo e del dionisiaco,
illuminismo e romanticismo, idealismo e positivismo, il prevalere ora dell’una
ora dell’altra categoria, oggi si fondono. O meglio, domanda: oggi si fondono?
Di questo vorrei discutere ampiamente con Settis. Per forma mentis, sono
architetto, non riesco a separare il Sapere dal saper fare e a dare ad entrambi
pari dignità. Anche se conosco la dolorosissima “messa a terra dell’idea” e il
mare periglioso che separa l’idea, dal suo progetto e dal suo farsi opera. Ma i
tre momenti, professor Settis, secondo lei possono superarsi o separarsi?
Possono tenersi separati? E, infine, una discussione così complessa ed epocale,
me ne renda atto, può banalizzarsi nei termini di una trattazione
cronacistica?

4. Trasportiamo tutto questo nella scuola, per tentare di
venirne a capo, perché di scuola stavamo parlando. Il mondo della scuola, come
dicevo più su, a prescindere dai governi, da Renzi o da me o da Settis, sta
vivendo con grande dignità devo dire e sola (il mondo accademico della ricerca
educativa si guarda bene dall’entrare e vivere anche solo per qualche ora le
classi ) questi mutamenti epistemologici e filosofici che riguardano l’umanità
in questo momento, e come potrebbe esimersi, è lo spirito del tempo, non lo
ferma nessuno. Lo Zeitgeist attraversa la società e la scuola è il più grande
sottosistema sociale che esista. Paroloni? No, realtà. Il Sapere è fatto di
saperi, le discipline, e fin qui ci siamo, ma oggi le discipline non sono più né
monadi, né edifici con pareti in muratura, né cittadelle, come il positivismo
migliore, e l’encyclopedie ad esso collegata, ci avevano abituato a considerare.
I settori disciplinari, a cui larga parte dell’accademia è aggrappata mani e
piedi come granchi allo scoglio, vivono ormai in astratto come entità distinte,
in realtà, ma fuori dall’accademia sta accadendo altro. Sono frattali. E
nemmeno quello. Sono soluzioni gassose. E nemmeno quello. Sono qualcosa che non
riusciamo più a contenere nel libro di testo, anzi, nei diversi libi di testo,
e nella classe e nemmeno nei processi, cioè nella trasmissione dei contenuti. E’
saltato tutto e alcuni fanno finta di non vedere e non capire, anche se è
veramente difficile non vedere e non capire. Il concetto di competenza è una
zattera in questo momento, in cui la formazione duella quotidianamente con la
tempesta delle informazioni. Informazioni che mutano di momento e momento,
recando con se, grande come l’universo intero il problema delle verità nella
verità. Che non è la messa in discussione dei saperi, ma la capacità di
governare la messa in discussione. Potevamo chiudere porte e finestre per
evitare quel duello, ma ci è arrivato e ci arriva quotidianamente sulle gambe
dei nostri studenti e delle nostre studentesse. Non sono isolati nel villaggio
e intorno una foresta fittissima li separa dal mondo. No, sono immersi in quel
flusso e ci sono nati e se ne sono fatti persino una ragione, quella zattera la
guidano meglio di noi, ma la direzione? Esiste o forse no, un’etica del Sapere,
che può permettersi di ignorare tempeste e contaminazioni, per motivi
intrinseci e metafisici, ma esiste, e questo è solo un sì, un’etica
dell’insegnamento, e questa non può ignorare nulla.

5. “E’
un’idea perversa sostituire la parola “conoscenza” con “competenza”, come è
stato fatto dai pedagogisti alla nostrana, consultati da Berlinguer e dalla
Moratti” scrive Settis. Come detto sopra, e lo ridico, perdonate l’insistenza,
il tema delle competenze non è nostrano, di “pedagogisti alla nostrana”, ma è
internazionale, è un tema della ricerca educativa, fossi in Settis, o in altri,
lo approfondirei (per un’indicazione: la banca data Eric interrogata alla voce
“skills” ) perché è un tema molto ma molto fertile, oltre che precondizione per
comprendere tanti indirizzi dei sistemi educativi sparsi per il globo, ma anche
per comprendere direzioni del pensiero. La Comunità Europea alla fine degli
anni 90 del secolo ormai passato, decide di autodefinirsi come “società della
conoscenza”, questo non significa che l’utilitarismo cancellerà il sapere, ma
esattamente il contrario, che il sapere informerà di se ogni ambito della vita,
non solo individuale - e dunque di se e della propria cultura ciascuno può fare
o non fare ciò che meglio crede – ma anche collettivo, e tra le grandi azioni
collettive ci sono le azioni di cittadinanza e il lavoro. Significa che non
l’utilitarismo ma la necessità di nuove consapevolezze vince. Vince cioè
l’idea. Vince la consapevolezza che per la prima volta è il Sapere a permeare
di se tutto, attraverso l’uso consapevole di una sapere sempre accresciuto e in
divenire. Come si è tradotto i termini operativi nel sistema educativo europeo?
Con due atti legislativi (Risoluzione Parlamento Europeo Lisbona 2000 e
Raccomandazione del Parlamento Europeo 18.12.2006 ). Questi due atti normativi europei sono stati recepiti
dall’Italia nel 2007. Se non ci convincevano era allora il momento di dire
Brexit, non adesso. Chi scrive pensa che invece l’Italia abbia fatto bene a
recepire, innescando un mutamento profondo, che già c’era e nessuno lo vedeva,
o vede, e ho detto anche questo, mutamento e innovazione sostanziale che andava
raccontata, evidenziata, mentre si è spesso affidato ai temi giuslavoristi il
tema del mutamento nella scuola, beh, io sostengo che quel cambiamento profondo
è già in atto da almeno 30 anni, al confronto del quale la “buona scuola” è un
riflesso, lo dice bene Perrenoud nei suoi scritti. E’ stato confinato alla
scuola primaria, unico segmento ad avere come docenti dei professionisti
riflessivi, cioè insegnanti dotati di conoscenze pedagogico-didattiche oltre
che disciplinari (leggere Donald Schon, Il professionista riflessivo, quanto
mai attuale ). E ha dato i suoi frutti, se osserviamo che quel segmento è
quello che, in termini di rilevazioni internazionali delle competenze, ci mette
tra i migliori. Dunque, la strada intrapresa sulle competenze ha altre origini,
ha una precisa visione, internazionale e comunitaria, e le scuole l’hanno già
accolta e praticata, proprio iniziando a riflettere e a operare e a fare scuola
con i significati e le forme della parola “competenza (fornisco un piccolo
esempio di programmazione per competenze, fatta in un istituto comprensivo,
anche per far capire al lettore di cosa stiamo parlando, : http://www.comprensivofrosinone3.gov.it/wp-content/uploads/2016/03/Appunti-per-una-didattica-delle-competenze-in-chiave-di-cittadinanza-1.pdf , ma digitando
“competenze chiave” ne troviamo centomila di declinazioni operative nelle scuole
del termine competenza ). Per tornare all’inizio: il concetto di competenza
comprende in se il concetto di conoscenza, non è separato, né in alternativa.
E’, in parole poverissime, l’abilità di saper declinare in modo consapevole
nella vita il sapere acquisito, non solo è una forma di acquisizione della
conoscenza, e qua, signori miei, siamo in terra montessoriana, non liberista, dunque
tale sapere, e tale sapere esperito, in
qualche modo li si deve acquisire, a scuola o altrove (il 65% delle conoscenze
di un tredicenne non ha fonte formale, cioè scolastica), ma soprattutto, ed qua
che entra in scena l’insegnante, la guida, lo si deve saper organizzare, è
dunque l’organizzazione della conoscenza, la riflessione sulla conoscenza, che
è una competenza, la capacità che dobbiamo favorire nei nostri studenti, sì o
no? E tale competenza, fatta di conoscenza ma che non risolve in essa, come altre
competenze, la si deve maturare a scuola, non fuori della scuola, e poi
accrescere progressivamente lungo l’arco dell’esistenza. Dunque non conoscenza
vs competenza, ma conoscenza e competenza. Senza conoscenza non esiste
competenza. E senza competenza non esiste conoscenza, la profezia di Maria
Montessori si è avverata. Lungo il Novecento quelle intuizioni si sono
arricchite di altre acquisizioni di pensiero connesse ai processi di
insegnamento e apprendimento, dalle riflessioni sulle intelligenze multiple,
alle scoperte neurologiche, che hanno messo in connessione definitiva mano e
memoria, a quelle psicologiche sul ruolo dell’intelligenza emotiva nell’apprendimento
e nel comportamento. Tutto concorre a modi diversi di fare scuola, di fare
cultura, di produrre conoscenza, che non può più limitarsi al sapere e ai saperi
e si accompagna al produrre, al cooperare, al condividere, al risolvere, al
riflettere, all’organizzare, al creare.

Un tempo alla scuola, all’università
bastava fornire la conoscenza, o meglio, bastava trasmettere un patrimonio
organizzato di saperi: “ se so, so fare”, grande equivoco. Il saper fare (sospendiamo
per adesso l’approfondire le ragioni del pregiudizio ideologico nei confronti
del saper fare esercitato dal mondo del sapere, fortissimo ancora oggi dentro
il mondo accademico, un pregiudizio tutto crociano, elitario, padronale nel
senso negativo del termine, che ha voluto sempre tenere perfettamente separati
il mondo del sapere da quello del saper fare, pregiudizio che puzza di
diseguaglianza nei confronti del quale chi scrive ha sempre nutrito aperta
ostilità, convinta come sono che il più grande strumento per abbattere le
diseguaglianze sia la conoscenza, quando essa però si accompagni alla virtù,
cioè ai valori) era demandato a un momento successivo al tempo della
formazione. Per cui la scuola era una parte della vita, il fare, in termini di
lavoro, ma anche di vita vissuta, era un’altra parte dell’esistenza. Ma ciò
oggi è impossibile da praticare. Già un altro visionario anticipatore della società
della conoscenza, Dewey, cento anni fa diceva che l’istruzione non è parte
della vita, ma la vita stessa. Oggi, in un’epoca in cui sapere e saperi mutano
continuamente, è necessario apprendere lungo l’arco della vita intera, oggi, in
un’epoca che gira tutta intorno alla conoscenza, è necessario mettere a frutto
consapevolezza dell’apprendimento e uso dell’apprendimento, senza che ciò
pregiudichi il valore o la qualità dell’apprendimento stesso, ma che sia in
grado anche di metterlo in discussione con consapevolezza, affinchè l’ipse
dixit non si trasformi in un “ma che cavolo sto dicendo”? O anche “non ho
nemmeno compreso quel che ho votato”. Mi pare che non sia un problema
liberista, ma un un problema che investe in pieno il significato di
cittadinanza e di polis. Ecco, gli strumenti per maturare tale capacità si
chiamano competenza e tali strumenti, io, docente, voglio che si maturino a
scuola, non altrove. Perché tanto più darò valore culturale a tali strumenti tanto
più gli individui che crescono saranno in grado di essere cercatori di idee, produttori
di idee e padroni di idee, sempre, tutta la vita, non guardiani di macchine,
magari con grandi bagagli conoscitivi, ma incapaci di agire in un mondo di
macchine, incapaci di guidare le macchine.

6. Cada dunque definitivamente
l’idea che le competenze siano sapere
specialistico. Era il positivismo e la divisione in settori disciplinari di
tutta la conoscenza ciò che promuoveva le specializzazioni. Anche qui, quanti
equivoci. Le discipline sono specialistiche per forza di cose, e va benissimo
che lo siano, i tuttologi sono da osservare con sospetto, lo diceva già Gramsci,
perché vanno per approssimazioni, non per approfondimenti. Ma le competenze
sono tutt’altra cosa che specialismi, perché sono capacità meta cognitive,
trasversali al sapere disciplinare, sono capacità. Saper risolvere un problema
della vita quotidiana non è sapere specialistico, è applicare il sapere a problemi, e farlo con
l’ausilio dei saperi specialistici (che siano le singole materie scolastiche,
se trattiamo di cose generali, o che siano i singoli insegnamenti specialistici,
se parliamo di ambiti specifici: cosa ad esempio che fa Settis quando si
accinge a risolvere il rebus della modalità di restauro di una cinta muraria ),
insegnamenti che non sono dati una volta per sempre, ma devono accrescersi e
acquisirsi lungo l’arco della vita; tutto questo è una competenza maturata e
maturabile. No, non sono contro gli specialisti, significherebbe essere contro
le conoscenze sempre più approfondite e libere che poi “con competenza” posso
applicare ai singoli problemi. Mi ostino a invitare tutti quanti a evitare
massimizzazioni che fanno il paio con banalizzazioni. La grande scuola italiana
si basa sugli apprendimenti, su un robusto sistema di saperi trasmessi e sugli
specialisti, non li rinnegherei per nulla al mondo, perchè su questo suo
trasmettere e accrescere conoscenze in modo approfondito si fa metodo. A questo
edificio solidissimo dobbiamo dare anche le ali: cioè le capacità di
organizzare e riorganizzare e usare i propri specialisti all’interno di un
quadro generale di altre competenze in un mondo in veloce divenire. Dare le ali
per non precipitare, come al castello errante di Howl. E i nostri figli non ne
avranno per nessuno. Direi di più: lo abbiamo insegnato anche ai figli del
mondo, attraverso quei pedagoghi nostrani che Settis sta enormemente
sottovalutando, lo abbiamo inventato noi il concetto di competenza, con Maria
Montessori. Magari formulato allora in altro modo. L’istruzione non è parte
della vita né avulso dalla vita. E’ la vita stessa. E con la vita finalmente si
mischia. Quanti, quanti equivoci, quanti problemi di lessico e quante
declinazioni via via confuse dei processi conseguenti a quelle mancate
precisazioni terminologiche. Eppure, notizione, le maestre e i maestri
d’Italia, pedagogisti di casa nostra, lo han compreso e lo stan facendo, rimane
da raccontarlo e mostrarlo al Paese, e ai cosiddetti “disciplinaristi”, agli
“specialisti”; di grazia, Settis come si autodefinisce? E’ facilmente
dimostrabile e le evidenze empiriche lo confermano come gli apprendimenti migliorino
con le didattiche per competenze; maturano meglio nel fare, nelle
contaminazioni, nelle trasversalità, nelle osmosi, nel virtuale, nulla
togliendo al necessario e ineludibile approfondimento delle discipline. Oggi
come sempre, l’obiettivo di un insegnante quello è: migliorare gli
apprendimenti, che siano conoscenze e/o competenze.

7. Come si risolve la Babele
intorno alla scuola riguardo questi temi, oggi che finalmente la scuola è
argomento di confronto collettivo ed è uscita da quell’isolamento in cui si era
ed era stata confinata per decenni? In un modo semplice: studiando, studiando,
studiando, e raccontandole meglio le cose, sia che siamo addetti ai lavori, sia
che stiamo facendo informazione, o
riflessione. Per farlo “con cognizione di causa” bisogna però studiare e
studiare e studiare, per acquisire un lessico comune e condiviso e, dopo averlo
fatto, confrontarsi in modo obiettivo sui temi. Allo stato attuale siamo lungi
dal confrontarci su idee diverse in modo obiettivo, perché mi pare di capire
che siamo ancora nella torre di Babele e perché troppi argomenti eteronomi
vizino il dibattito. Mi piacerebbe molto discuterne con Settis. Ma anche col
tabaccaio sotto casa, snocciolando in modo comprensibile a tutti le questioni, per
un’etica comune che è anche etica del linguaggio e che deve spingerci tutti a
raccontare e raccontarsi per capire e far capire. E questo ho provato a fare e
proverò ancora.
