giovedì 23 febbraio 2017

Il partito degli inascoltati e la fuoriuscita(forse) dal PD

Se la politica non ascolta
Di Mila Spicola
Articolo comparso su L'Unitá del 21 2 2017

La politica è cuore. La politica è testa. La politica è matematica. La politica è opportunità. La politica è opportunismi. La politica è contraddizione. 
Parlo oltre l’acquario e forse è il mio limite, l’essere poco politica e troppo nelle politiche, ma forse non lo è; perché ho letto il messaggio di Ada, una casalinga di san benedetto del tronto, mi spiace non poterti richiedere l'amicizia il tuo intervento in direzione di oggi mi è piaciuto tantissimo! grazie di tutto comunque professoressa! Ho pianto perché io ce l’ho fatta a raggiungere chi volevo raggiungere. Per me il PD è sano e vegeto e lotta insieme ad Ada. Vero è ben, Pindemonte, che vorrei capire questa narrazione mediatica che ci vuole litigiosi e sull’orlo del dramma, che ci vuole con una “classe dirigente non all’altezza” e che però si fa sfuggire perle come l’intervento di Ileana Argentin che dice “non avete avuto la voglia di ascoltare quel ragazzo che parlava prima”. Sembra banale. Se io scrivo adesso che i miei temi sono scuola e lavoro sembra banale. Se io scrivo adesso che sto, stiamo cercando disperatamente da anni di dare sicurezza, futuro e cultura a dei ragazzi che non ne trovano, sembra banale, dovrei parlare di forma partito e di ragioni dell’unità. 

Anche se il risultato della politica è semplice, non può esserlo il metodo per arrivarci. La complessità della politica non è quella della sua materia, ma del nostro intelletto annodato. Mia madre era abbastanza ricca, era figlia di burgisi, borghese, mio nonno aveva le terre anche se era analfabeta. Mio padre era molto povero, orfano di padre in una famiglia con quattro figli. Si comprava i libri di scuola scrivendo lettere per contadini analfabeti. Mia madre si ritrovò mano nella mano con Cettina, la sua amica del cuore, e la madre di lei, che lavorava nelle terre di mio nonno, ad occuparle al grido di “vogliamo le terre” senza nemmeno capire che le terre erano le sue. “Ciccina, vieni!! Ma che fai lì, vieni in casa subito!!” Sciogli i nodi. Non so parlare d’altro, di lavoro e libri, perché sono stata cresciuta a lavoro e libri. Non mi interessano i tatticismi, gli accordi, le strategie. La linea. Voglio la Politica. 

Sebastiano mi scrive da Marsala e non ha un lavoro “trovami la soluzione”. Che errore rispondergli quando invece dovrei occuparmi e preoccuparmi della data del congresso del PD e spiegare a tutti perché sono così stronza, così mi ha scritto un amico, da voler la scissione, io, che “rinnego il passato”!! Scusateci, non vorremmo disturbarvi mentre stabilite le norme per il congresso ma vogliamo le terre. Vogliamo il lavoro. Vogliamo il lavoro dentro la scuola e la scuola dentro il lavoro. Non va detto? E’ di destra! Svendi il sapere! Svendi la Scuola! Perché il sapere deve essere inutile mi dicono, io dico che il sapere deve essere disinteressato, non inutile. 

Sebastiano non ha un lavoro, centinaia di migliaia di ragazzi non hanno un lavoro, mi si dice che le imprese non hanno lavoratori formati e io vi chiedo: chi li deve formare? Mila, di che parli? Basta, hai un'ossessione… in gioco c’è la scissione del PD, stai facendo retorica. Se puoi dire con certezza che lì c'è una mano, allora ti accordiamo tutto il resto. Se puoi dirmi con certezza che parleremo di lavoro e di libri e cercheremo i modi dell’oggi per farlo, i modi utili, non quelli inutili, allora ci accordiamo su tutto il resto, caro compagno. Puoi dirmi con certezza che parleremo di lavoro per risolvere i problemi di Sebastiano e non i nostri? Che sia il fine di tutto e non la strumentalizzazione perenne? Che c’entra la data? Questo non capisco. Che data? Devo preoccuparmi perché sono così stronza da dire a chi si preoccupa della data ma vai a quel paese? Dimmi con certezza che lì c’è una mano e non una trappola. Ma tu l’hai capito esattamente perché gli insegnanti italiani si sono arrabbiati? O ne fai piede di porco per aprire le porte? Dimmi con certezza che lì c’è una mano e non una questione di liste, di leadership. Dimmi con certezza che siamo la sinistra che serve oggi, adesso! Non quella che serve a noi stessi. La sinistra disinteressata e utile.

Ho imparato a leggere anche su questo giornale su cui oggi scrivo, che era messo là da leggere nella sezione che stava nel paesino dove sono cresciuta e dove a volte mi tenevano buona. Unità e unitevi stavano dunque accanto a c’era una volta... - Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. Riecco la retorica, no, ragazzi, avete sbagliato. C’è che nessuno può dar lezioni di storia e tutti possono darla nelle discussioni di questi giorni. C’è che nessuno ha ragione e tutti hanno ragioni, tutti hanno orgogli e tutti hanno ferite. La mia? Ve lo dico subito: non potrò mai passare sopra al fatto che si sia strumentalizzata la Costituzione. Non potrò mai passare sopra al fatto che ancora si giochi col metodo democratico che è carne e sostanza della nostra storia. Chiedete scusa agli italiani, e se ne riparla subito. 

Per il resto venga chi vuole, vada chi vuole, anch’io sono andata e tornata, senza tanti drammi. Purché si parli di lavoro e libri e purché troviamo utile parlare con Ada tanto quanto parlare tra di noi, anzi di più. Sembra semplice, il difficile è trovare il linguaggio e il modo, attenti a noi, il limite del linguaggio è il limite del mondo. 
E’ il partito più grande, quello degli inascoltati. Che se ne sta sonoramente fregando della data del congresso del PD.

mercoledì 22 febbraio 2017

Il PD e Giovanni dalle Bande Nere


Vorrei una politica che parli di Politica. Non di caratteri, di rancori, di simpatie, di antipatie. Di Politica.

Il limite del linguaggio è il limite del mondo. Cosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure? Tra il permettetemi di dire e il diciamo? Tra il “nemmeno una telefonata” e il “che brutto termine la rottamazione”? Cosa rimane tra il “sei arrogante” e il “sei rancoroso”? "Sei anaffettivo"??!!Può essere questo il terreno del contendersi di una politica che politica non è? Mi verrebbe da ridere se la questione non fosse così seria. 
Il direttore de L'Unità ha dedicato, disperato dall’assenza di argomenti, basito per non volere trasformare il giornale in una rassegna di cuori infranti ed emotività offese, un numero intero alle parole delle donne su queste cinque giornate del PD. Come per dire: vediamo se le regine delle emozioni riescono a commentare l’incommentabile e a cucinare un pranzo appena commestibile. Mi viene solo da dire che meno male che il ciclo lo abbiamo le donne sennò l’umanità si sarebbe estinta, se la lucidità necessaria in questo momento è capace di produrre solo reazioni sui comportamenti personali e non propositi di direzioni politiche. 
Io, tra le righe delle donne, anche tra le mie, se avessimo dovuto commentare proprio quello, ho letto solo sbigottimento. Ciascuna di noi ha scelto di cambiare discorso, o meglio, di arrivarci al discorso eluso:  esistono dei motivi politici e non personali su cui il PD debba dividersi? La mia risposta è no. E’ una scissione? Su queste basi? L’arroganza, il rancore, la telefonata, o la data? La mia risposta è no.  Esiste il tema “il PD non è mai nato perché era la gelida somma tra DS e Margherita”? La mia risposta è no, perché io non ero né DS né Margherita. E come me tanti e tante. Il PD era, è, e doveva essere altro, e, se posso affermarlo, è altro. Coloro che si attardano a esaminarlo con quelle categorie, da dentro come protagonisti o artefici e da fuori come osservatori, falliscono le analisi quanto le azioni.  
C’è la politica in questi scampoli d’inverno? La mia risposta è no. E allora mi chiedo e vi chiedo: può essere che lo sgomento per il vuoto di soluzioni di alcuni esponenti illustri del partito democratico, poiché deve essere riempito da qualcosa per una banale legge fisica del vaso comunicante, viene riempito da ciò a cui stiamo assistendo in assenza di Politica? Schermaglie di aggettivi. E' un vuoto che non riguarda solo il PD, attenzione, ma riguarda le categorie di elaborazione delle politiche basate sui meccanismi tradizionali della tattica e della strategia, della contrapposizione politica corpo a corpo, oggi totalmente inadeguate. 
Nel film Il mestiere delle armi, sugli ultimi giorni di vita di Giovanni dalle Bande Nere, Giovanni, consapevole della scarsità delle proprie truppe, adotta una tattica basata sull'impiego di un manipolo di cavalleggeri e archibugieri a cavallo. Attacca con brevi schermaglie i vettovagliamenti degli imperiali in modo da ritardarne la marcia. Ma verrà colpito dal cannone, la nuova arma, ferito, ne morirà. I falconetti del generale von Frundsberg segnano la fine di un'epoca: il medioevo e l'età dei cavalieri e dei loro castelli sta finendo sotto i colpi dei cannoni che mettono presto fine ai lunghi assedi feudali. Il corpo a corpo lascerà il passo alle grandi guerre, con ben altre armi e difese e offese, arriverà a passi veloci il Rinascimento, fatto di luci possenti, d’arte e di pensiero, come di ombre di guerre e di veleni. 
Tu, pulzella cortese come ti avventuri a parlar di guerra e non di pace? Non lo so, le immagini della mente fanno giri strani e se ti imponi di non pensare alle liti, alle liti pensi; come il giochino del “non pensare all'elefante!” e subito l’elefante ti compare in mente. 

In queste ore miei illustri compagni di partito mi sembrano, ci sembrano simili a tanti Giovanni dalle Bande Nere, pronti a cadere metaforicamente sotto il peso dei cannoni, delle guerre più grandi, di pensieri più grandi, di problemi più grandi, di mutamenti in corso, veloci, velocissimi, che forse sanno adesso di non sapere vincere, perché non hanno armi per vincerle, mentre si attardano a caricar un superato archibugio. Armi politiche, filosofiche, epistemologiche in grado di proporre soluzione, o anche solo comprensione, mi vien da dire. Si attardano in schermaglie per ritardarne la marcia.

Invece di parlare di lavoro si parla d’arroganza. Invece di parlare di Europa si parla di telefonate. Invece di parlare di immigrazione si parla di date. Invece di parlare d'innovazione si parla di regolamenti. Invece di parlare di nuove galassie si scava il pozzo vecchio e secco ancora un po' più giù per vedere se c'è acqua chiamando gli assetati. Che già sono vicini a una sorgente. Il cannone e il falconetto.
Il limite del linguaggio: se parli e vivi di emotività sei a mani nude, hai ancora meno dell'archibugio. Forse azzecchi l'analisi ma non proponi soluzioni adeguate. Dov'è il cannone? La politica..dov'è? 

Come diceva Orwell, le azioni anche se sembrano prive di effetto non per questo risultano prive di significato. Germi dei pensieri grandi si intravedono già, a chi li vuol vedere. E nemmeno son tanto nuovi i codici. Basterebbe alzare la testa e guardare un po’ più in là dei propri piedi. 

Non guardarti i piedi ma dove li metti. Non guardare la strada, ma dove porta. Fai Politica, cazzo. Arma i cannoni. Li abbiamo già. Te lo dico sottovoce, li abbiamo già, non guardarti i piedi. Li abbiamo già. Non so se sei consapevole come Giovanni della scarsità delle tue truppe; se ti attardi anche tu in schermaglie, compagno, sei superato, sei il problema, sei eliminato.

domenica 5 febbraio 2017

Leggere, scrivere e fare di conto



Gli studenti italiani non sanno leggere e non sanno scrivere. Gli studenti sanno leggere e sanno scrivere. Entrambe le affermazioni sono vere ed entrambe sono false perché la realtà è fatta, in questa come in altre questioni che riguardano il sistema d'istruzione italiano, di più di 50 sfumature di rosa, non di nero, non di bianco e non di grigio. 
Proverò a spiegarmi meglio semplicemente mettendo in fila una serie di considerazioni né ottimistiche ne pessimistiche, semplicemente realistiche. Quel che scrivo è frutto di saccheggio nelle opere di grandi maestri, come De Mauro, Vertecchi, Visalberghi, nei rapporti di alcune rilevazioni nazionali e internazionali e hanno lo scopo di dare il quadro delle contraddizioni, come premessa per qualche soluzione. 

Gli studenti italiani dunque scrivono male perchè scrivono ma, soprattutto, leggono poco? Vero. Però leggono di più degli adulti. Partiamo da questo. Le rilevazioni Ocse Pisa sulla comprensione del testo dei quindicenni nel mondo ci dicono che l'Italia è più o meno a metà in una classifica di 68 paesi. Potremmo stare più su, è vero. E questo è il dato negativo, il dato positivo è che guadagniamo posizioni. 
Preoccupanti invece sono le rilevazioni Ocse Piaac sulle stesse competenze della popolazione adulta: in quella classifica siamo ultimi. E' un dato noto agli esperti, poco noto ai più, affatto ai media, che sovrappongono le due rilevazioni confondendo cavoli e merenda.

E' un dato che fu la base, insieme ad altri studi, per le riflessioni sull'analfabetismo funzionale degli adulti che tanto allarmava De Mauro. Quell'allarme venne raccolto dal governo Fioroni, ne nacque una commissione interministeriale presieduta dallo stesso De Mauro, cadde il governo e addio provvedimenti conseguenti. Ho riportato i risultati medi di quelle indagini. Disaggregando i dati la situazione si complica: perchè poi bisognerebbe operare dei distinguo ulteriori e capire a cosa ci riferiamo: ai divari nord sud? ai divari di contesto? ai divari tra tipi di scuola. 
Se consideriamo l'ultimo divario, ad esempio, sempre in Ocse Pisa i nostri liceali risultano tra i migliori, fosse per loro saremmo insieme a Finlandia o Canada, per dire. I nostri liceali però sono una percentuale del totale, non il totale.
E comunque anche di loro dovremmo dire che dovrebbero leggere di più e scrivere meglio, figuriamoci la platea intera dei nostri studenti. 

Se all'università i seicento docenti che hanno firmato l'appello si vedessero arrivare come negli anni che furono solo liceali forse non si lamenterebbero così, o forse sì? 
Rimane il fatto che i rendimenti oggi come ieri sono ancora legati ai contesti e ai tipi di scuola e alla geografia economica e sociale del Paese, oltre che al titolo di studio dei genitori e questo sì che sono i fattori  su cui bisognerebbe agire con massicce azioni a favore del recupero degli ultimi, che si concentrano negli istituti tecnici e professionali, al sud o nelle periferie, nel ceto medio basso, quello bassissimo nemmeno arriva all'Università.

Andiamo avanti. Il 1962 segna la nascita della scuola media unica, figlia di un lavoro comune, di un sentimento collettivo di cui il grande Visalberghi fu ispiratore. Era il grande desiderio di tanti: l'istruzione pubblica per tutti, indifferenziata. 
Sono trascorsi 55 anni mica tanti, eppure tanti sono i miglioramenti rispetto ad allora. L'impero austroungarico aveva avuto l'istruzione pubblica per tutti almeno cento anni prima, per dire. 
E così nei paesi protestanti la lettura è sempre stata favorita proprio dalle indicazioni post luterane mentre da noi rimane, finita la scuola, il vezzo di pochi più che il bisogno di tutti. 
In 55 anni comunque abbiamo portato tutti a scuola, tutti, il tasso di analfabetismo di base si è azzerato, il tasso di dispersione fino al diploma si è ridotto di più della metà, da migliorare il tasso di laureati. Non va tutto bene madama la marchesa ma neanche male. 

Che cosa è accaduto? Perché  i docenti hanno segnalato l'allarme?  Si è abbassata la qualità dell'insegnamento e del sistema d'istruzione, come lamentano stracciandosi le vesti in tanti? O, allargando di fatto l'ingresso a più alti gradi d'istruzione ai figli degli ultimi, si è abbassata la media dei rendimenti? Io direi la seconda.
Se gli adulti sono ultimi e  i quindicenni a metà verrebbe da dire che la scuola è migliorata non peggiorata e che sono i coetanei di Cacciari o di Galli Della Loggia a presentare problemi di analfabetismo maggiori. In realtà forse non è nemmeno così e il tema è un altro: leggere e scrivere sono funzionalità, si acquisiscono e migliorano praticandole, se non si praticano si perdono. Si può parlare allora di una progressiva perdita di tali competenze mano a mano che in Italia si cresce, poiche la media degli italiani non pratica più tali competenze? Forse sì e sarebbe il caso di verificarlo. 
La sfida lanciata da Visalberghi e da Don Milani rimane.
Per quel che riguarda il sistema scolastico, mi spiace per i catastrofisti, non siamo regrediti ma dovremmo andare più avanti: non solo non perderne uno, ma portare tutti al successo formativo.

Tutti vuol dire tutti e successo formativo non significa un voto in pagella ma il diritto di godere e  comprendere arte e conoscenza, e dunque "frequentare con profitto", sia che si frequenti un liceo sia che si frequenti un istituto professionale. Saper leggere, scrivere e fare di conto in modo adeguato e corretto: è in fondo ciò che chiedono i 600 docenti.

Mio padre è un maestro in pensione, insegnava in periferia. Io sono una professoressa delle"medie", 
anche io insegno  in periferia e ho chiare le differenti opportunità di partenza di alcuni bambini rispetto ad altri: di offerta formativa formale come anche informale, di asili, che tanto contribuiscono al livellamento delle differenze in entrata, di contesti familiari favorevoli o meno favorevoli, se non ostili, anche per insufficienze di reddito, non solo di progetto di vita. Su quelle differenti opportunità di patenza si dovrebbe agire e su massicce azioni di recupero degli ultimi, lo dico e lo ripeto ovunque e in ogni occasione. 

Aggiungo anche che il mio maestro mi ha insegnato che scopo della scuola del ciclo primario è leggere, scrivere e fare di conto. Lo è ancora? Sì. Lo han dimenticato alcuni? Sì. Lo stiam praticando come era in passato? Forse. Dovremmo aggiungere o mutare qualcosa? Secondo me sì, soprattutto nelle abitudini mentali.

Lo dico a me stessa, ai docenti, ai genitori, a chiunque: leggere significa che dobbiamo concepire tale attività come diletto ma come pane quotidiano, lo stesso vale per la scrittura a mano, cioè la scrittura corsiva, vero prof. Vertecchi? E lo stesso vale con il far di conto.

Anche nell'epoca dell'innovazione digitale? Certamente. Leggere, scrivere a mano e fare di conto.

Le innovazioni didattiche, con l'uso delle tecnologie, 
(da non confondere con le competenze digitali e/o informatiche) mi riferisco sempre al ciclo primario,  sono utili, perché facilitano il dialogo con chi cresce oggi, ma solo se piegate a queste tre finalità. Solo se si hanno chiari gli obiettivi didattici, sennò è solo fuffa. 
Non sto dicendo cari colleghi, che bisogna esorcizzare il digitale, ma che questo concorre alla didattica, si piega alla didattica, ma non è alternativo alla didattica. Io credo che oggi come ieri tutte le metodologie didattiche nel ciclo primario debbano concentrarsi su quei tre fini: leggere, scrivere e fare di conto. E tutto quel che aiuta, parlare un'altra lingua, fare sport, fare innovazione, ben venga. 

Ho assolto la scuola? Ho colpevolizzato la scuola?

 No, ma è un sistema che regge e che le riforme non distruggono, né innovano radicalmente, checché ne dicano tanti, compresi i riformatori. Tanto è complessa e vasta e frammentata la galassia scuola. 
Semmai vorrei capire il ruolo e il peso di altre agenzie educative, tanto più pesanti quanto assenti sono le famiglie, tanto più negative quando esempi di incultura, di maleducazione, di ignoranza. 

Quello su cui c'è il nulla, il vuoto, è invece il segmento della popolazione adulta. 

Vero è ben che, per quel che riguarda il percorso formativo formale, Scuola e Università,  andrebbe sempre rinnovato lo sforzo organizzativo, "l'architettura di sistema", la messa a terra dei provvedimenti,  specie se portiamo avanti il concetto di autonomia responsabile, concetto rispetto al quale chi scrive non è affezionata.

Ultime considerazioni: in Italia la scuola viene concepita come parte della vita, non come la vita stessa. Dovremmo cambiare concezione e questo lo si fa con azioni di sistema, perché è il sistema poi che crea i sentimenti. Leggere, scrivere e fare di conto sono azioni quotidiane indispensabili come mangiare, bere e respirare. Ripetiamocelo da mattina a sera tutti quanti e pratichiamole, tutti. Leggere, scrivere a mano e fare qualche conto a mente. Da 5 a 100 anni.

 E allora, siccome dirlo non basta,  compito del governo è supportare leggi, provvedimenti 
 e risorse, non necessariamente scolastiche, per favorire il cambio di opinione e diverse abitudini, 
Che risultano urgenti e importanti come l'alimentazione corretta, se non di più. Con una certezza: molto è stato fatto, molto resta da fare e ha che fare con la giustizia sociale, con la democrazia e con la ricchezza della nostra nazione 





giovedì 19 gennaio 2017

La scuola che ci servirebbe

La scuola che ci servirebbe.

L'Unità del 19 gennaio 2017.
di Mila Spicola. Tanti pensieri si sono affollati nella mia testa leggendo ieri Cassese sul Foglio, come i diritti contrastanti ricordati dal giurista nella sua intervista. Per grandi linee sono d’accordo con Cassese: la scuola è fatta per assicurare i diritti degli studenti, quelli dei docenti sono un mezzo, non un fine. Mio padre, alla fine degli anni ’50, andò supplente nel Sulcis, quando la Sardegna appariva lontana quanto l’America. Prima di trovar la mia strada dietro una cattedra, ho vagato per l’Italia e l’Europa per 15 anni. E’ vero quello che dice Cassese: essere insegnante significa diventare persona dello Stato, concetto desueto? Lo Stato si serve senza esitazione, se si crede nello Stato. Ma chi crede nello Stato? E lo Stato ha fatto in modo di credere nei docenti? Cosa s’è fatto della scuola negli ultimi decenni? Mercato. Sono stati i docenti a mettere in primo piano se stessi o è stata usanza del potere di trovarsi clientes a basso costo? Privilegiando ora l’uno, ora l’altro gruppo e non avendo mai il coraggio di dire di no? Quando lo ha fatto o lo fa, quel potere cade, di fronte al potere più grande della politica: i numeri. Quello dei docenti è il comparto più numeroso. Il senso comune agisce potentemente quando si discute di scuola (col portato di giudizio e pregiudizio), poco il buon senso e pochissimo la scienza. E’ la struttura che crea il sentimento e i sentimenti dei docenti di oggi nascono da una struttura confusamente messa a punto da provvedimenti di volta in volta contrapposti, tutti di segno parziale, mai complessivo, raramente derivanti da un dibattito adulto e maturo con chi si occupa nel mondo della ricerca di sistemi d’istruzione ma sempre figli di aggiustamenti, di esigenze parziali ora dell’una ora dell’altra fascia di precari. Quando si agisce su misure che riguardano gli studenti spesso si guarda altrove, si studia poco e si copia molto, spesso a casaccio; la necessità del dato e di una valutazione di sistema, importata con la lezione americana di Visalberghi è divenuta ossessione anche collettiva per il dato, per la raccolta e la sua divulgazione, ma non c’è la consequenzialità, cioè azioni sempre pertinenti, di sistema, legate a quei dati.

Faccio un esempio: dagli anni ’60 e con le rilevazioni degli ultimi anni viene fuori la stessa identica fotografia, quella dei divari Nord Sud nei rendimenti degli studenti. Quello che Don Milani chiamava “condizionamento sociale” la misura del “peso” nel successo scolastico del contesto economico, geografico e, soprattutto culturale della famiglia, ed è un peso decisivo. Nei contesti deprivati, quei dati dicono che l’aver frequentato l’asilo disegna un destino diverso e anche l’aver frequentato il tempo pieno. Ebbene, al Sud, dove i dati percentuali di insufficienze nelle competenze di base, di povertà educativa e di dispersione scolastica sono massimi non ci sono né asili né tempo pieno. La politica non se ne preoccupa e non se ne occupa, salvo mettersi a fare i giri carpiati quando i “docenti deportati” chiedono di tornare al Sud. Sarebbe fare l’interesse dei docenti o dei bambini predisporre asili e tempo pieno anche al Sud, dove servono più dell’aria? Abbattere i divari scolastici è il primo tassello per abbattere le diseguaglianze in una nazione. Ho preso questo ma potrei farne altri, di esempi.
Ho eluso il problema del presunto scarso senso dello Stato dei docenti? Può darsi, ma è un dato di sistema: è assai diffuso in ogni ambito della pubblica amministrazione. Sui dati sistemici non si agisce col giudizio ma con azioni di sistema. 

Sulla Buona Scuola avrei voluto un dibattito di tipo diverso, se non c’è stato è colpa di tutti in modo diverso. E’ difficile governare un mondo mutevole e frammentato, ancora legato a ideologie gentiliane, qual è la scuola italiana. Una frammentazione spesso confusa con l’autonomia. Docenti? Quali? Quelli delle elementari? Delle medie? Di prima fascia? Del “tfa”? Che studi hanno fatto? Sono professori, ex studenti dei licei e delle facoltà di lettere che ancora orientano i ragazzi per rendimenti e non per attitudini, e dunque per censo, perché i rendimenti sono figli di quello? O è un commercialista che ha fatto il concorso ed è piombato in cattedra? E' responsabilità loro, o del percorso formativo e selettivo che la politica ha messo in campo?
Due grandi indagini internazionali sul rapporto tra qualità di un sistema d’istruzione e docenti, il rapporto Talis del 2013 e The learning curve del 2014, confermano che uno dei fattori determinanti per la qualità è la formazione iniziale e la selezione dei docenti. La recente Riforma sulla Scuola che, a mio parere, ha molti aspetti positivi e altrettanti negativi, contiene comunque un invito a ragionare di innovazione didattica, anche se poi quell'invito non risulta inquadrato in una cornice pedagogico didattica chiara e coerente, dandola per scontata, quando invece la platea dei docenti, precari e di ruolo, che dovrebbero portare avanti quell'innovazione, è troppo diseguale, non ha un lessico comune e troppo diverse sono le condizioni non solo contestuali, ma di offerta e organizzazione scolastica; il prevedere e guidare l’impatto delle scelte, quali esse siano, oltre che organizzarne bene la messa a terra, doveva essere uno degli elementi stessi della legge. 

Risulta allora quanto mai necessaria e da pensare bene la delega di riforma sulla formazione e selezione dei docenti, per ridare un orizzonte e una direzione comune e chiara ai due livelli del mestiere dei docenti: quello personale, legato alla propria condizione di lavoro e alla carriera e quello culturale e sociale, legato al ruolo, ai metodi e allo sviluppo delle competenze specifiche in modo da ricomporre adeguatamente interessi legittimi oggi tra loro contrastanti. E’ necessario ad esempio riunire scuola e ricerca educativa ed è una delle finalità della delega, dunque parlare pubblicamente non di graduatorie ma di saperi disciplinari e di competenze professionali dei docenti, come degli studenti, di sapere e sapere agito, di innovazione dei processi e non solo tecnologica; qualificare le scelte pedagogiche e didattiche dandone senso, documentazione, consapevolezza condivisa e diffusa, come è per ogni ricerca. Valorizzare, come lavoro intellettuale e professionale, un mestiere per troppo tempo considerato nel suo aspetto impiegatizio. Siamo di fronte all'immensa sfida epistemologica del millennio: passare dalla trasmissione del sapere alla condivisione e creazione del sapere, sfida accelerata dalla rivoluzione digitale, con tutto il portato economico, sociale, culturale, di riorganizzazione e senso del lavoro che ne conseguono. La bella notizia è che molti docenti l’han già raccolta e sorridono quando le dispute sono sul voto quando invece la guerra è tra il principio di autorità e la distruzione di ogni autorevolezza, il frantumarsi dei corpi intermedi, anche in classe, tema caro in altri ambiti eppure non esplorato nel suo verificarsi nel mondo della conoscenza. 

Il terzo indicatore di qualità è la capacità del sistema di recuperare gli ultimi. E’ stata la via canadese con lo Student Success Act , adottato tra il 2000 e il 2010, organizzando i docenti a quel fine. Oggi il Canada è tra i migliori sistemi d’istruzione. Diceva Albert Einstein: non ho fatto altro che mettere i miei allievi nelle condizioni migliori di imparare e fare. Dovremmo ripetercelo tutti e sempre.


lunedì 16 gennaio 2017

Contro la violenza sulle donne: educare per prevenire.


Contro la violenza sulle donne: educare per prevenire.


L'articolo reca la data del giugno 2015. Lo pubblico nuovamente mossa dalla rabbia causata dai femminicidi di queste ore.

Da Duino a Lampedusa ogni 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ogni 8 marzo, giornata internazionale delle donne, e ogni 17 maggio, giornata internazionale contro l'omofobia, ci sono iniziative, manifestazioni, eventi contro la violenza sulle donne e le discriminazioni di genere. 

Dovrei essere soddisfatta per come la «questione» violenza di genere, non sia più negata, minimizzata o rimossa, come accadeva fino a pochissimo tempo fa. 
Rimangono sempre di meno coloro che  dichiarano come un centinaio di vittime di femminicidio siano «statisticamente irrilevanti». Eppure, dopo la manifestazione del Family Day contro le coppie di fatto e "l'ideologia gender", torno ad essere perplessa perché sento che siamo pronte a un cambio di passo ma non so se il verso mi convinca più di tanto. 

La violenza sulle donne, sui gay, sui diversi di genere e in genere (perchè includo nelle diversità anche disabili, persone di razze diverse, di religione diverse e ogni altro tipo di diversità) nascono sempre da uno stereotipo, anzi, anche lo stereotipo lo è, un atto violento, che costringe in gabbie di ruolo uomini e donne.
Contro lo stereotipo, ogni stereotipo, non vedo prese di posizione o battaglie, vedo solo conferme, soprattutto dai mezzi di comunicazione e informazione. 
Vedo tanta, tanta confusione e tanta tanta ignoranza.
Combattere lo stereotipo non significa affatto annullare o mortificare le differenze, anzi, il contrario. Significa educare al rispetto della propria autodeterminazione, alla libertà verso se stessi.
E' un discorso ozioso quello delle bambole, del rosa, dei trenini e del celeste.
Tutto si può fare, dice un mio caro amico, purchè lo decidi da solo o da sola e ne sei consapevole e fiero o fiera.
E chiunque è fiero della propria autodeterminazione è fiero dell'autodeterminazione altrui, non la vede come una minaccia o un errore.

Parrebbe dunque che l’angolo in cui viene relegata la donna pestata dalle foto del racconto collettivo sulla violenza di genere stia diventando esso stesso stereotipo potente, capace ahimè di peggiorare le cose piuttosto che sanarle, di aprire un abisso ancor maggiore tra uomini e donne, così come anche molti stereotipi sui gay, entrambi supportati da donne o da gay, e mi viene il dubbio che dalla rimozione del problema oggi si stia arrivando a una consapevolezza errata del problema che nulla di nuovo dice sui diritti delle donne, dei gay e delle diversità. Relegando ancora il tutto nel campo dell'eccezionalità e dunque della stranezza, e dunque dello stereotipo: siamo ancora alla fase donna debole da difendere? Donna in pericolo rimani a casa la sera? 

Quale stereotipo più falso quello della debolezza tout court delle donne?
Ci sono donne deboli e donne fortissime, fin da piccole, capaci di sfidare la morte e il mondo per un'idea, da Malala a noi stesse. E ci sono momenti e momenti della vita, prove e prove. In cui tutti, uomini, donne o gay o altro, siamo variamente deboli e variamente forti e nessuno stereotipo potrà salvarci, se non tale consapevolezza: che siamo variamente forti e variamente deboli in relazione a noi stessi o stesse e non in relazione a un ritratto collettivo.
Stiamo equivocando una debolezza femminile tutta da dimostrare: le donne oggetto di violenza sono per lo più donne forti e autodeterminate, così come fortissimo è un ragazzino che esce da casa coi pantaloni rosa, salvo poi essere investito da migliaia di proiettili culturali e sociali, così tanti da soccombere. Però da casa con quei pantaloni rosa era uscito, con che dose di coraggio lascio a voi definire. E' il nostro Rosa Parks nazionale quel ragazzino lì.
Ciò che viene avversato da chi rifiuta le diversità è il coraggio di mostrarsi forti, autonomi, autodeterminati, liberi. 
Il decreto Letta-Alfano contro il femminicidio, in modo inconsapevole e culturalmente immaturo, andava nel verso della conferma dello stereotipo della debolezza, è stato centrato più sulla tutela e la pena (necessarie, nessuno lo nega) che sulla necessaria e inderogabile prevenzione, anche e soprattutto di tipo educativo, cioè sul cambio di verso culturale che adesso dobbiamo fare, come collettività e come Paese. Adesso siamo al nocciolo del problema: cambiare strutture culturali profonde quanto errate. E chi lo dice che sono errate? La violenza. Nothing else.

Quando si dice educazione purtroppo abbiamo solo la scuola, meno alla famiglia, sempre più incapace di sostenere problemi educativi (altro che libertà di educazione delle famiglie..le famiglie non educano più da tempo, anzi, nel complesso diseducano), e meno che mai alla società intera, rivelatasi totalmente diseducativa, nei fatti e negli esempi. Non credo che qualcuno possa negarlo.

Rimane la scuola, ed è in quella direzione che dobbiamo tentare di andare. Lo han capito i nemici del rispetto per le differenze, i portatori inconsapevoli di paura e regresso, le sentinelle con la testa rivolta all'indietro. E infatti la manifestazione contro le unioni civili recavano accanto un "siamo contro l'ideologia gender a scuola". Non esiste l'ideologia gender, esiste però e forte la resistenza al miglioramento della situazione attuale da parte degli ambienti conservatori del Paese.

Da anni alcune di noi promuovono la necessità e il proposito di inserire nella scuola una cosa semplice e indispensabile per attraversare la vita da individui o da parti di consesso collettivo: l'educazione al rispetto delle identità di tutti, alla parità dei diritti e la lotta ad ogni discriminazione. E questa la si conduce isolando gli stereotipi e combattendoli. Ho detto gli stereotipi, non le diversità. Le gabbie, di ogni genere, non le individualità.
State tranquilli tutti: siamo diversi, siamo tutti diversi, ma uguali nei diritti.
Nessuno vuole annullare le diversità, ma molti vorremmo ribadire i diritti, l'eguaglianza dei diritti.
L'educazione ai diritti, su tutti quello alla libertà.

No, non è facile da comprendere né da praticare la lotta agli stereotipi a cominciare da noi adulti, quando tutto rema contro e anche la donna pestata, in modo sottile,  è diventato uno stereotipo. E sono stereotipi immensi la debolezza femminile e la forza maschile. Come quelli di razza o di diversità fisica. Difficilissimi da combattere.
Mi sembra che il racconto delle violenze, sulle donne o sui gay, sia così ossessivamente monocolore da aumentare tali stereotipi. 

Solo con cultura ed educazione si possono mutare linguaggi e comportamenti, e il linguaggio è veicolo potente di pensieri e convinzioni profonde, perché «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», diceva qualcuno. 
Per questo non sottovaluto col sorrisino la giusta determinazione della Boldrini a dare il nome di donna alle donne. E non sottovaluto nemmeno le reazioni, fintamente superficiali, o di scherno, sono potenti reazioni allo stereotipo, appunto.

"Prima ti ignoranopoi ti deridonopoi ti combattonoPoi vinci." diceva Gandhi.

I limiti del linguaggio sono i limiti del mondo. Non sono vezzi grammaticali le parole, ricordo che Averroè ci finì al rogo e fu una delle battaglie filosofiche più accanite quella medievale sui nominali. Se dai il nome a una cosa la riconosci in quanto tale, se non glielo dai non esiste. Semplice. . La cancelliera Merkel non è un vezzo lessicale. Cultura ed educazione per distruggere gabbie apparentemente indistruttibili.
La sostanza è la forma. I giornali sono pieni di donne accucciate nell’angolo con l’occhio pesto e di uomini neri ripresi di spalle, l'uomo nero è sconosciuto.
Ma quando mai? E' il padre, il marito o il fidanzato, con nome e volto; le cinque righe in cronaca sono pieni di «babysquillo» e di mamme discutibili. Degenere la mamma, ovviamente e i padri dove sono?  di donne da difendere persino dalle altre donne, "la svergognata come si è vestita"? di gay vestiti di rosa in quanto gay, e di gay che si offendono se gli dici che non devono vestirsi da gay.
Latitano dai media le facce dei criminali che hanno ammazzato le donne, poveri folli vittime di troppo amore; recano il silenzio le righe scritte di papà assenti, appunto, o non si vedono mai le facce di utilizzatori finali di sesso a pagamento con bambini. 
Sono tutti senza volto, in ombra, stranieri, questi uomini? Non esistono? Vogliamo negarli?

Eppure le statistiche ci forniscono l’incredibile numero dei 9 milioni di maschi italiani adulti che il sesso lo pagano. A prescindere dalla libertà personale e legittima di fare quel che vogliono, tale cifra non preoccupa nessuno? Nessuna redazione vuol metterla in prima pagina? O lo stereotipo è e rimane quello che il sesso è una colpa per le donne, che lo vendono, ma tutta salute per gli uomini che lo comprano? A me non sembra affatto un segno di sana e robusta costituzione. 

Lo stereotipo profondo è che la provocazione sia donna e la vittima sia il provocato? Ne parliamo? 
E che femminicidi, violenze, entità della prostituzione, discriminazioni di ogni genere, omofobia, sono legati da un filo sempre più stretto e visibile, chi lo dice?  Il filo di un'ignoranza palese e di una riflessione collettiva assente.
Numeri che disegnano ormai non tanto una questione femminile e nemmeno più un’abnorme questione maschile, ma un poderoso equivoco collettivo, innaffiato in ogni istante, di mascolinità bandita come orgoglio da non offendere mai. 
 
Le donne sono "capre", se osano definirsi al femminile, e lo dice anche gente di "cultura", segno che lo stereotipo non è figlio dell'ignoranza ma di una cultura che nega alle donne la presenza nel mondo in modo autonomo, libero, indipendente, creativo meno che mai anticonvenzionale.

Non si muta tutto ciò coi decreti dei delitti e delle pene, ma con rieducazione degli adulti, non solo dei nostri figli o figlie. Siamo tutti generatori automatici di stereotipi sessisti e ci stupiamo, ci indigniamo che i ragazzi imitino? I ragazzi imitano.

Acclamare come lecito l’uso mercificato del corpo. E i ragazzi osservano. 

L’uso del corpo attiene alla libertà, vero, ma sul “mercificato” in quanti si interrogano sul serio? 
Eppure il corpo è sacro quanto la persona. Lo è per l’uomo allo stesso modo di quanto lo sia per la donna? Mi sembra che il corpo maschile oggi sia più sacro di quello delle donne o sbaglio? 
Concetti difficili da far comprendere al direttore di un quotidiano, all’amico con cui discutiamo, figurarsi a un adolescente.
I ragazzi osservano e copiano.
Cosa voglio dire? Sto mescolando troppe cose?

No. Voglio dire che la lotta alla violenza di genere deve iniziare dalla lotta agli stereotipi di genere, e ancor prima, da un sano e profondo discorso sulla libertà individuale e sui diritti, sull'identità della donna in quanto eprsona e non in quanto pezzo di qualcun altro. Sul rispetto di se stessi e degli altri,.
La lotta alla violenza sulle donne parte da un confronto adulto su questi temi che ci riguarda tutti. Dovrebbe iniziare subito e subito diventa mai. Con ogni mezzo. E invece usiamo gli stessi mezzi, limitati, della rivendicazione. 

Vogliamo iniziare dalle scuole? Se da qualche parte si deve iniziare, cominciamo da lì. È stata accolta dal governo l’indicazione di adottare un codice antisessismo e di rimozione degli sterotipi nei libri di testo nelle scuole, il codice Polite, per il quale ci siam battute strenuamente per 20 anni. Il Codice è lì, è approvato, eppure è scomparso dai radar. E dunque? Le case editrici lo sanno? Sì lo sanno e persino il Ministero lo sa. Ritengo i libri di scuola, se rivisti in ottica non sessista, il più potente e semplice mezzo contro la violenza di genere che ci possa essere. Eppure stiam fermi. 

Credo che qualcosa stia mutando.
L'articolo di legge nella riforma sulla scuola che introduce l'educazione alle differenze come obbligo scolastico, non ideologico, ma per dare semplice attuazione all'art. 3 della Costituzione che tutti difendono ma tutti disattendono.
La Costituzione non parla ad altri, parla a ciascuno di noi. 
Per la prima volta una circolare è stata inviata dal Miur alle scuole nella giornata contro l'omofobia. Impensabile fino a qualche anno fa. E per la prima volta una preside si permette di inviare una lettera a tutti i genitori contro il nuovo corso che sta arrivando. Perchè? Perchè il nuovo corso sta arrivando.
Ma non basta ancora.
Per la prima volta un articolo di legge sta dicendo che si introdurrà l'educazione di genere a scuola. Non come insegnamento disciplinare ma come atteggiamento culturale trasversale.
Su questo si son messe ancora più in piedi e di traverso le sentinelle del passato.

E' possibile inoltre stringere un patto sano tra stampa, tv e Paese sui temi che riguardano la comunicazione e la rappresentazione delle donne? Dei gay? Delle diversità? Attenzione: nulla da imporre, ma tutto da riconsiderare. 
Non per limitare ma per riequilibrare un racconto sbilanciato e falsato.
Se lo proponi ti tirano le pietre: mai sfiorare il sacro recinto della libertà di stampa, sacrosanto. Ma dall'arbitrio chi ci salva? "Il lettore è il miglior giudice!" Il lettore? Quale lettore? I 9 milioni di uomini che hanno un rapporto patologico col sesso?
Il vero «problema» è l’autodeterminazione e la libertà delle donne? Dei gay? Dei migranti? Sembrerebbe di sì. 
Qualunque sia l’ambito, professionale, culturale o sessuale, il problema oggi come allora è la libertà: alcuni possono averla, altri no.
L’aggettivo "libera", messo accanto a donna assume significati diversi e immaginari antichi, inutile negarlo. E' un limite sociale ancora oggi. Libera come facile. Facile che vuol dire? Esistono uomini facili? C'è differenza? Eccome...
Il limite del linguaggio è il limite del mondo. Vede e rivela.
Ancora oggi la libertà delle donne è un boccone amaro per gli uomini e per le donne stesse, soprattutto quella sessuale e via via tutte le altre; ancora oggi l'unione civile di due persone dello stesso sesso è un'eccezione non digeribile; pensare poi al matrimonio o a crescere bambini impossibile.

Verrà il momento in cui l'amore differente diverrà indifferente? come anche un lavoro differente o una vita differente?
Sono astronauta e mi chiamo Samantha, e allora?
Sono single, non ho figli e non ne voglio, adoro i negozi di ferramenta e mi chiamo Mila, e allora?

Verrà il momento in cui essere differente sarà indifferente in termini di diritti e sarà importante la differenza solo in quanto persona?
Altro che stereotipi, abbiamo statue di bronzo aere perennium. Contro questo vogliamo e dobbiamo lottare e la conoscenza sui diritti è il mezzo più potente per abbattere gli stereotipi. 
Io dico, viva l’autodeterminazione delle donne, degli uomini, dei gay, dei disabili, degli uomini di ogni razza contro la violenza. E anche uno stereotipo lo è.

venerdì 13 gennaio 2017

L'ideologia è viva e lotta insieme a noi.



Non prendetemi per matta ma concedetemi un sorriso se lancio qualche riflessione azzardata.

La morte di Tullio De Mauro, poi di Bauman, poi cattive riletture natalizie, a cascata a partir da quelle, Saussure, Levy, e anche la situazione presente e viva, cioè la caduta del governo, lo spaesamento attuale, dentro e fuori di me, hanno risvegliato in me la metafisica.

Sì, sì, azzardo, la metafisica, visto che i suddetti metafisici non son mai stati, come fuga dall'immensità delle mie inadeguatezze, emotive e razionali, attuali. Parlo del me politico, e divido questo spaesamento con altri, lo so.
No, non è l'analisi della sconfitta, sarebbe facile. E' l'analisi delle sconfitte di senso collettivo che si stanno verificando un po' ovunque e, come improvvise cadute di meteoriti, lasciano un crateri ampio e profondo.
Erano tempi bui ma proficui, scriveva Bettini in un saggio sullo spazio architettonico tra Roma e Bisanzio nel Tardoantico, l'epoca storica che mi sembra la meno lontana da quella che stiamo vivendo: presente tra due immense metafisiche, quella del mondo classico e la nascente medievale.

Il Natale è un periodo ottimo per rifugiarsi come un liceale, in letture matte e disperatissime, nei pensieri grandi, nei pomeriggi infiniti, credendo di trovare una bussola anche per le decisioni piccole.

Potrei dire che la liquidità, o il nichilismo che ne è premessa, rendendo onore a Bauman, mi stia avvolgendo? :-) Perdonatemi se mi concedo l'astrattezza, tipica di una mente matematica, ma senza matematica non si costruisce nulla e non c'è niente di più concreto della matematica, di più poetico della matematica. Torniamo la dunque, lo scrivo e lo affermo. 
Io non credo che le ideologie siano crollate. Affatto, per nulla; anzi. 
No. Decisamente no, non è morta, l'ideologia è viva e lotta insieme a noi, dentro di noi, fuori di noi. E questa è la prima consapevolezza d'inizio d'anno; delle riflessioni filosofiche degli ultimi venti anni non condivido il nichilismo.
La fede e il desiderio di riscatto sociale, le due grandi ideologie che guidano da sempre la Storia, sono assolutamente presenti nel mondo, fortissime. Adesso poi ancor di più. Le crisi sono una fucina di ideologie.
La fede e il desiderio di riscatto sociale. Lo riscrivo. E non credo nemmeno nella crisi dei valori, anzi, quei valori sono vivissimi, tanto quanto la loro disattesa. 
Così forti, fede e desiderio di riscatto sociale, da incidere profondamente anche in una laica come me, o come altri, per i portati morali che recano appresso e per gli eventi ad essi collegati.
Volente o nolente.
Più del capitalismo, che c'è, che sarebbe positivo e che può facilmente collocarsi entro i recinti delle due ideologie.
Cosa significa? Significa che c'è bisogno di sinistra, eccome, ma, per così dire, attualizzandone i modi. Perchè linguaggi, modi e strumenti della sinistra di sempre ruotano nell'aria senza posarsi su nessun terreno perchè il terreno è un altro e allora dovrebbero forse mutarsi.
Grazie, Mila, ce lo ripetiamo da 30 anni. E facciamo bene, e non deve spaventarci l'assenza delle risposte. E' troppo difficile leggere la natura dei cambiamenti, star dietro a loro, prevederne gli esiti.
E allora? Sto disegnando dubbi, dunque problemi, quando la politica dovrebbe dare la soluzione dei problemi.,
Ridefinire la natura i problemi la ritengo già una risposta. 
Sono mutate le organizzazioni dell'azione intorno a quelle ideologie, e le armi, sono mutate le esigenze, sono mutate le teste e anche il dna dell'umano. 
Reali da un  lato, digitali dall'altro. O mischiati insieme?
Quelli sì, sono liquidi.
Il racconto dell'oggi deve partire da questo assunto che è una visione culturale.
Gestire la liquidità, ridefinirla, gestire i problemi, dopo averli ridefiniti, gestire il reale, dopo aver preso atto che è mutato profondamente, ma entro quei due pilastri, sempre uguali, imbattibili nella forza prorompente che emanano.
Una liquidità da gestire non da totemizzare. 

Pensieri strani? Non lo so. Sono comunque pensieri che direttamente vanno a incidere sul tema del rapporto tra culturale e reale oggi. E dunque su quale strada per il "consumo culturale", o per l'assenza di consumo culturale, o il diverso consumo culturale. Non ho cambiato discorso. La cultura disegna l'identità, individuale o collettiva.
Perchè se l'ideologia è viva e lotta insieme a noi vuol dire che lo sono pure i corpi intermedi ad essa connessi e dunque i codici interpretativi o narrativi culturali necessari a trasformare il verbo in azione, e dunque in dimensione politica. 
Qualcuno dice che non vi sia un orizzonte culturale nella politica attuale, o nei politici attuali. Delle due l'una: o non è vera quell'affermazione, o io e tantissimi altri che riflettiamo non siamo politici.
De Mauro aveva scritto molto sui rapporti tra qualità delle democrazie e dati di alfabetismo o analfabetismo della popolazione.
Ci ho messo un po' di testa e tempo, ad incrociare i dati. Non mi convince il dato del presunto analfabetismo. Troppo alto, secondo secondo gli incroci con altre indagini, e appare nebulosa la definizione dell'analfabetismo, come delle competenze da misurare per definirlo tale, anche se l'imbecillità crescente del dibattito pubblico o "social" darebbero ragione a lui e a Eco.
A me sembra una lettura assolutoria, per giustificarci il come non riusciamo a trovare i linguaggi adeguati a fare cultura oggi, a diffondere cultura oggi. Di conseguenza, a fare politica oggi. Perchè corrispondono a  provvedimenti politici inadeguati.
Siamo una congrega di liceali che non vuol piegarsi al tempo che passa e che forse dovrebbe sforzarsi di trovare nuovi codici interpretativi per lo smottamento a cui assistiamo.
No, non siamo in un tempo post ideologico, siamo in un tempo di parossismo ideologico perche le due immense ideologie non trovano cinghie di trasmissione nella comprensione collettiva. Non si spiegano in altro modo i fanatismi individuali e collettivi che ci stanno sommergendo.
E comprenderlo sarebbe la prima via per progettare il da farsi.
Qualcuno lo sta facendo benissimo e scientemente, un papa. Qualcun altro, in altre sedi, dovrebbe farlo altrettanto.

giovedì 29 dicembre 2016

Rete, verità, rispetto e democrazia. Ovvero, educare alla libertà.

di Mila Spicola
Il problema non è dare o togliere voce agli imbecilli, ma educarli, renderli inoffensivi, responsabilizzarli
(commento pubblicato su UnitàOnLine il 29 dicembre 2017)
  


La prima cosa a cui si abituarono fu il ritmo del lento passaggio dall’alba al rapido crepuscolo. Accettavano i piaceri del mattino, il bel sole, il palpito del mare, l’aria dolce, come il tempo adatto per giocare, un tempo in cui la vita era così piena che si poteva fare a meno della speranza.

L’idea che condusse Golding a scrivere Il Signore delle mosche fu un esperimento reale condotto quando insegnava. Divise i ragazzi delle classi di quarta elementare in due gruppi che, sotto la supervisione dell’insegnante, dovevano dibattere su vari argomenti, e la cosa andava piuttosto bene, aveva fornito delle regole d’ingaggio e dibattimento, era contento della classe e di come stava andando. Un giorno il prof. Golding decise di abbandonare l’aula e lasciare i ragazzi, in realtà bambini nel pieno dell’innocenza, in totale libertà, ma dovette rientrare dopo poco per impedire che la situazione degenerasse pesantemente, erano già quasi arrivati alle mani. O mutos deloi oti. Cosa insegna? Che la speranza sono le regole? O il controllo? O la certezza di una sanzione se si sbaglia, poiché, come dicevano i maestri del diritto, sine pena nulla lex? O la definizione dello sbaglio?
Ricevendo la laurea honoris causa in Comunicazione all’Università di Torino, Umberto Eco, scomparso in quest’anno di perdite eccellenti all’età di 84 anni, regala al mondo la sua celeberrima critica feroce dei social network (“diritto di parola a legioni di imbecilli”).
Dicembre 2016, in un’intervista al settimanale belga Tertio, papa Francesco usa toni parimente duri, riferendole ai media, ma potremmo estenderle a chiunque. “Disinformare, calunniare gli avversari politici, sporcare la gente, è peccato, i media devono essere “limpidi e trasparenti” e non devono “cadere nella malattia della coprofilia. - è peccato, trasposto al diritto, è reato - La disinformazione – spiega il Papa nell’intervista – è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità”. Invece, prosegue Bergoglio, i media, ma non solo loro, aggiungerei, devono “essere molto limpidi, molto trasparenti, e non cadere nella malattia della coprofilia, che è voler sempre comunicare lo scandalo, comunicare le cose brutte, anche se siano verità. E siccome la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia, si può fare molto danno”. I media, dunque non solo la rete, per Francesco, “possono essere tentati di calunnia, e quindi essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica.” Dalla coprofilia alla coprofagia. 
2016. “Post verità”, ossia quando la verità è una variabile indipendente. Il referendum britannico sulla Brexit e la vittoria di Donald Trump alle presidenziali Usa fanno inserire il termine “post-truth”, appunto, in italiano “post-verità”, nel prestigioso Oxford Dictionary, che la dichiara parola dell’anno. Post Truth: espressione che descrive l’atteggiamento non solo e non tanto di chi dice il falso, ma di chi considera alla stregua di un optional la differenza tra ciò che è vero e ciò che non lo è: spacciando indifferentemente argomenti sensati o meno – senza darsi pena di consentire una verifica – a seconda dei propri fini e dei propri interessi del momento, basterebbe chiamarle menzogne. 
2016, Germania. In questi giorni, la coalizione di governo sta pensando a introdurre una nuova legge che prevede multe fino a 500.000 euro alle aziende che, operando nel settore dei social media, dopo una segnalazione non provvedano prontamente a rimuovere una notizia falsa entro 24 ore. Le preoccupazioni starebbero nascendo a causa dell’approssimarsi delle elezioni e dal timore che le notizie false possano influenzare il voto come secondo alcuni sarebbe già accaduto negli Stati Uniti o per la Brexit.  
2016, Unione Europea. Il presidente del parlamento europeo Martin Schulz ha sollecitato lo sviluppo di leggi a livello europeo per meglio affrontare il problema. 
Dicembre 2016, Italia. Il ministro Andrea Orlando rilascia sull’argomento un’intervista al Foglio, l’intervista diventa virale proprio sul web. Pubblicata sul suo profilo facebook viene letta, discussa e condivisa da migliaia di persone, ha colto nel segno.Ma il segno qual è? Approfondisce e rilancia; la netiquette coinvolge temi profondi e grandi: i gradi di separazione che si sono annullati, i corpi intermedi che sono in crisi, la responsabilità del vero e del falso, la verità come optional; cose da agitare con estrema cautela come la glicerina, il mix è esplosivo e ad esplodere è la democrazia. 
E’ necessario introdurre delle regole, delle sanzioni per le grandi aziende del web, che ormai, come ha ammesso lo stesso Zuckenberg, agiscono come media company, quando non rimuovono notizie false? Temi complessi, per coloro ai quali interessi approfondire il rapporto tra società, singolo e grandi colossi del web, consiglio un bel libro di Franco Introini, Comunicazione come partecipazione. Tecnologia, rete e mutamento socio-politico, che molte cose le metteva insieme già nel 2007, senza averne ancora sperimentate le conseguenze cui abbiamo assistito nel corso di questo anno di eventi non tanto imprevedibili, se si fosse letto di più e bene; nel libro l'autore introduce  i concetti di autoregolazione e gli albori dello “scetticismo sistematico” come codice interpretativo della rete. Ditemi se non ci siamo in pieno, nello scetticismo sistematico e nel suo uso strumentale. Internet è o non è luogo di apertura e libertà? Oppure sono galassie che possono essere strumentalizzate, condotte, indirizzate, deviate, da false o vere chimere, e a poco serve la speranza dell’autoregolamentazione o della trasparenza poiché la notizia falsa, abilmente veicolata e resa virale, non viene contrastata efficacemente dagli anticorpi dell’autoregolamentazione. Non basta.
Uscire dall’astratto al concreto: è sufficiente assegnare una sanzione alla media company? La responsabilità sarebbe nel mezzo? O il mezzo ha la sola funzione di identificare le responsabilità? La responsabilità, come la libertà, si  declina al singolare, diceva la Arendt. Aiuta forse la sanzione al mezzo, alla media company, ma non è tutto, non è sufficiente, servono regole e vanno ridefinite le responsabilità penali dei singoli. 
Ritengo anche che il tema agitato della “censura come limitazione della libertà” sia un falso problema. Vanno ridefiniti senso e azione dei corpi intermedi, perché non esiste “la mia ragione”, il mio interesse legittimo, che contratto direttamente e  in verticale, bensì, per stare insieme va ricostruito il luogo di mediazione delle ragioni, degli interessi legittimi, che spesso sono contrapposti. Tra i corpi intermedi inserirei non solo partiti e sindacati ma anche la borghesia e la crisi del suo ruolo sociale. 
Ribadiamo un lessico essenziale, prima che rimaniamo impigliati nel troppo complesso? La libertà personale termina laddove inizia la libertà altrui, elementare Watson, eppure ce lo siam dimenticati. Libertà e libero arbitrio son cose diverse. Menzogna, diffamazione, calunnia, razzismo, sessismo sono reati e, in quanto tali, perseguibili. Di più: tornare a educare chi cresce, non servono parole nuove per peccati antichi. Che poi li si chiami “incitamento d’odio” poco cambia. 
Non può essere solo Facebook a combatterlo, ”il responsabile”, il problema non è dare o togliere voce agli imbecilli, ma educarli, renderli inoffensivi, responsabilizzarli, sennò sarebbe un’eterogenesi dei fini che non va alla radice del problema, che è sociale e individuale al tempo stesso.
Chi sottovaluta, ignora, equivoca non assicura nessuna libertà, semplicemente fa un danno alla legge e al vivere sociale. Lascia sola la classe, lascia aperti e assoluti i cancelli delle ragioni senza mediazioni. Sia che si calunni nel “mondo reale” sia che lo si faccia nel “mondo virtuale”, nulla cambia. Come ci insegna Goblin, non esiste il tempo in cui la vita è così piena da poter fare a meno della speranza, come non esiste un mondo senza regole, che vanno rispettate e fatte rispettare, fuori e a maggior ragione dentro il web. Non esiste l’innocenza, lo spontaneismo del web come antidoto ad elites che hanno tradito, perché chi strumentalizza le emozioni tradisce ancor di più.
E questo sono campagne di opinioni false virali. Non son discorsi leggeri, in gioco, come ha ben detto Orlando, c’è la democrazia. Evoco un confronto, non so come e non so dove, che conduca a un sistema di regole organiche che riguardino sia i media, che le media company, che i singoli e, insieme alle regole, controlli (autocontrolli?) e sanzioni.