giovedì 19 gennaio 2017

La scuola che ci servirebbe

La scuola che ci servirebbe.

L'Unità del 19 gennaio 2017.
di Mila Spicola. Tanti pensieri si sono affollati nella mia testa leggendo ieri Cassese sul Foglio, come i diritti contrastanti ricordati dal giurista nella sua intervista. Per grandi linee sono d’accordo con Cassese: la scuola è fatta per assicurare i diritti degli studenti, quelli dei docenti sono un mezzo, non un fine. Mio padre, alla fine degli anni ’50, andò supplente nel Sulcis, quando la Sardegna appariva lontana quanto l’America. Prima di trovar la mia strada dietro una cattedra, ho vagato per l’Italia e l’Europa per 15 anni. E’ vero quello che dice Cassese: essere insegnante significa diventare persona dello Stato, concetto desueto? Lo Stato si serve senza esitazione, se si crede nello Stato. Ma chi crede nello Stato? E lo Stato ha fatto in modo di credere nei docenti? Cosa s’è fatto della scuola negli ultimi decenni? Mercato. Sono stati i docenti a mettere in primo piano se stessi o è stata usanza del potere di trovarsi clientes a basso costo? Privilegiando ora l’uno, ora l’altro gruppo e non avendo mai il coraggio di dire di no? Quando lo ha fatto o lo fa, quel potere cade, di fronte al potere più grande della politica: i numeri. Quello dei docenti è il comparto più numeroso. Il senso comune agisce potentemente quando si discute di scuola (col portato di giudizio e pregiudizio), poco il buon senso e pochissimo la scienza. E’ la struttura che crea il sentimento e i sentimenti dei docenti di oggi nascono da una struttura confusamente messa a punto da provvedimenti di volta in volta contrapposti, tutti di segno parziale, mai complessivo, raramente derivanti da un dibattito adulto e maturo con chi si occupa nel mondo della ricerca di sistemi d’istruzione ma sempre figli di aggiustamenti, di esigenze parziali ora dell’una ora dell’altra fascia di precari. Quando si agisce su misure che riguardano gli studenti spesso si guarda altrove, si studia poco e si copia molto, spesso a casaccio; la necessità del dato e di una valutazione di sistema, importata con la lezione americana di Visalberghi è divenuta ossessione anche collettiva per il dato, per la raccolta e la sua divulgazione, ma non c’è la consequenzialità, cioè azioni sempre pertinenti, di sistema, legate a quei dati.

Faccio un esempio: dagli anni ’60 e con le rilevazioni degli ultimi anni viene fuori la stessa identica fotografia, quella dei divari Nord Sud nei rendimenti degli studenti. Quello che Don Milani chiamava “condizionamento sociale” la misura del “peso” nel successo scolastico del contesto economico, geografico e, soprattutto culturale della famiglia, ed è un peso decisivo. Nei contesti deprivati, quei dati dicono che l’aver frequentato l’asilo disegna un destino diverso e anche l’aver frequentato il tempo pieno. Ebbene, al Sud, dove i dati percentuali di insufficienze nelle competenze di base, di povertà educativa e di dispersione scolastica sono massimi non ci sono né asili né tempo pieno. La politica non se ne preoccupa e non se ne occupa, salvo mettersi a fare i giri carpiati quando i “docenti deportati” chiedono di tornare al Sud. Sarebbe fare l’interesse dei docenti o dei bambini predisporre asili e tempo pieno anche al Sud, dove servono più dell’aria? Abbattere i divari scolastici è il primo tassello per abbattere le diseguaglianze in una nazione. Ho preso questo ma potrei farne altri, di esempi.
Ho eluso il problema del presunto scarso senso dello Stato dei docenti? Può darsi, ma è un dato di sistema: è assai diffuso in ogni ambito della pubblica amministrazione. Sui dati sistemici non si agisce col giudizio ma con azioni di sistema. 

Sulla Buona Scuola avrei voluto un dibattito di tipo diverso, se non c’è stato è colpa di tutti in modo diverso. E’ difficile governare un mondo mutevole e frammentato, ancora legato a ideologie gentiliane, qual è la scuola italiana. Una frammentazione spesso confusa con l’autonomia. Docenti? Quali? Quelli delle elementari? Delle medie? Di prima fascia? Del “tfa”? Che studi hanno fatto? Sono professori, ex studenti dei licei e delle facoltà di lettere che ancora orientano i ragazzi per rendimenti e non per attitudini, e dunque per censo, perché i rendimenti sono figli di quello? O è un commercialista che ha fatto il concorso ed è piombato in cattedra? E' responsabilità loro, o del percorso formativo e selettivo che la politica ha messo in campo?
Due grandi indagini internazionali sul rapporto tra qualità di un sistema d’istruzione e docenti, il rapporto Talis del 2013 e The learning curve del 2014, confermano che uno dei fattori determinanti per la qualità è la formazione iniziale e la selezione dei docenti. La recente Riforma sulla Scuola che, a mio parere, ha molti aspetti positivi e altrettanti negativi, contiene comunque un invito a ragionare di innovazione didattica, anche se poi quell'invito non risulta inquadrato in una cornice pedagogico didattica chiara e coerente, dandola per scontata, quando invece la platea dei docenti, precari e di ruolo, che dovrebbero portare avanti quell'innovazione, è troppo diseguale, non ha un lessico comune e troppo diverse sono le condizioni non solo contestuali, ma di offerta e organizzazione scolastica; il prevedere e guidare l’impatto delle scelte, quali esse siano, oltre che organizzarne bene la messa a terra, doveva essere uno degli elementi stessi della legge. 

Risulta allora quanto mai necessaria e da pensare bene la delega di riforma sulla formazione e selezione dei docenti, per ridare un orizzonte e una direzione comune e chiara ai due livelli del mestiere dei docenti: quello personale, legato alla propria condizione di lavoro e alla carriera e quello culturale e sociale, legato al ruolo, ai metodi e allo sviluppo delle competenze specifiche in modo da ricomporre adeguatamente interessi legittimi oggi tra loro contrastanti. E’ necessario ad esempio riunire scuola e ricerca educativa ed è una delle finalità della delega, dunque parlare pubblicamente non di graduatorie ma di saperi disciplinari e di competenze professionali dei docenti, come degli studenti, di sapere e sapere agito, di innovazione dei processi e non solo tecnologica; qualificare le scelte pedagogiche e didattiche dandone senso, documentazione, consapevolezza condivisa e diffusa, come è per ogni ricerca. Valorizzare, come lavoro intellettuale e professionale, un mestiere per troppo tempo considerato nel suo aspetto impiegatizio. Siamo di fronte all'immensa sfida epistemologica del millennio: passare dalla trasmissione del sapere alla condivisione e creazione del sapere, sfida accelerata dalla rivoluzione digitale, con tutto il portato economico, sociale, culturale, di riorganizzazione e senso del lavoro che ne conseguono. La bella notizia è che molti docenti l’han già raccolta e sorridono quando le dispute sono sul voto quando invece la guerra è tra il principio di autorità e la distruzione di ogni autorevolezza, il frantumarsi dei corpi intermedi, anche in classe, tema caro in altri ambiti eppure non esplorato nel suo verificarsi nel mondo della conoscenza. 

Il terzo indicatore di qualità è la capacità del sistema di recuperare gli ultimi. E’ stata la via canadese con lo Student Success Act , adottato tra il 2000 e il 2010, organizzando i docenti a quel fine. Oggi il Canada è tra i migliori sistemi d’istruzione. Diceva Albert Einstein: non ho fatto altro che mettere i miei allievi nelle condizioni migliori di imparare e fare. Dovremmo ripetercelo tutti e sempre.


lunedì 16 gennaio 2017

Contro la violenza sulle donne: educare per prevenire.


Contro la violenza sulle donne: educare per prevenire.


L'articolo reca la data del giugno 2015. Lo pubblico nuovamente mossa dalla rabbia causata dai femminicidi di queste ore.

Da Duino a Lampedusa ogni 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ogni 8 marzo, giornata internazionale delle donne, e ogni 17 maggio, giornata internazionale contro l'omofobia, ci sono iniziative, manifestazioni, eventi contro la violenza sulle donne e le discriminazioni di genere. 

Dovrei essere soddisfatta per come la «questione» violenza di genere, non sia più negata, minimizzata o rimossa, come accadeva fino a pochissimo tempo fa. 
Rimangono sempre di meno coloro che  dichiarano come un centinaio di vittime di femminicidio siano «statisticamente irrilevanti». Eppure, dopo la manifestazione del Family Day contro le coppie di fatto e "l'ideologia gender", torno ad essere perplessa perché sento che siamo pronte a un cambio di passo ma non so se il verso mi convinca più di tanto. 

La violenza sulle donne, sui gay, sui diversi di genere e in genere (perchè includo nelle diversità anche disabili, persone di razze diverse, di religione diverse e ogni altro tipo di diversità) nascono sempre da uno stereotipo, anzi, anche lo stereotipo lo è, un atto violento, che costringe in gabbie di ruolo uomini e donne.
Contro lo stereotipo, ogni stereotipo, non vedo prese di posizione o battaglie, vedo solo conferme, soprattutto dai mezzi di comunicazione e informazione. 
Vedo tanta, tanta confusione e tanta tanta ignoranza.
Combattere lo stereotipo non significa affatto annullare o mortificare le differenze, anzi, il contrario. Significa educare al rispetto della propria autodeterminazione, alla libertà verso se stessi.
E' un discorso ozioso quello delle bambole, del rosa, dei trenini e del celeste.
Tutto si può fare, dice un mio caro amico, purchè lo decidi da solo o da sola e ne sei consapevole e fiero o fiera.
E chiunque è fiero della propria autodeterminazione è fiero dell'autodeterminazione altrui, non la vede come una minaccia o un errore.

Parrebbe dunque che l’angolo in cui viene relegata la donna pestata dalle foto del racconto collettivo sulla violenza di genere stia diventando esso stesso stereotipo potente, capace ahimè di peggiorare le cose piuttosto che sanarle, di aprire un abisso ancor maggiore tra uomini e donne, così come anche molti stereotipi sui gay, entrambi supportati da donne o da gay, e mi viene il dubbio che dalla rimozione del problema oggi si stia arrivando a una consapevolezza errata del problema che nulla di nuovo dice sui diritti delle donne, dei gay e delle diversità. Relegando ancora il tutto nel campo dell'eccezionalità e dunque della stranezza, e dunque dello stereotipo: siamo ancora alla fase donna debole da difendere? Donna in pericolo rimani a casa la sera? 

Quale stereotipo più falso quello della debolezza tout court delle donne?
Ci sono donne deboli e donne fortissime, fin da piccole, capaci di sfidare la morte e il mondo per un'idea, da Malala a noi stesse. E ci sono momenti e momenti della vita, prove e prove. In cui tutti, uomini, donne o gay o altro, siamo variamente deboli e variamente forti e nessuno stereotipo potrà salvarci, se non tale consapevolezza: che siamo variamente forti e variamente deboli in relazione a noi stessi o stesse e non in relazione a un ritratto collettivo.
Stiamo equivocando una debolezza femminile tutta da dimostrare: le donne oggetto di violenza sono per lo più donne forti e autodeterminate, così come fortissimo è un ragazzino che esce da casa coi pantaloni rosa, salvo poi essere investito da migliaia di proiettili culturali e sociali, così tanti da soccombere. Però da casa con quei pantaloni rosa era uscito, con che dose di coraggio lascio a voi definire. E' il nostro Rosa Parks nazionale quel ragazzino lì.
Ciò che viene avversato da chi rifiuta le diversità è il coraggio di mostrarsi forti, autonomi, autodeterminati, liberi. 
Il decreto Letta-Alfano contro il femminicidio, in modo inconsapevole e culturalmente immaturo, andava nel verso della conferma dello stereotipo della debolezza, è stato centrato più sulla tutela e la pena (necessarie, nessuno lo nega) che sulla necessaria e inderogabile prevenzione, anche e soprattutto di tipo educativo, cioè sul cambio di verso culturale che adesso dobbiamo fare, come collettività e come Paese. Adesso siamo al nocciolo del problema: cambiare strutture culturali profonde quanto errate. E chi lo dice che sono errate? La violenza. Nothing else.

Quando si dice educazione purtroppo abbiamo solo la scuola, meno alla famiglia, sempre più incapace di sostenere problemi educativi (altro che libertà di educazione delle famiglie..le famiglie non educano più da tempo, anzi, nel complesso diseducano), e meno che mai alla società intera, rivelatasi totalmente diseducativa, nei fatti e negli esempi. Non credo che qualcuno possa negarlo.

Rimane la scuola, ed è in quella direzione che dobbiamo tentare di andare. Lo han capito i nemici del rispetto per le differenze, i portatori inconsapevoli di paura e regresso, le sentinelle con la testa rivolta all'indietro. E infatti la manifestazione contro le unioni civili recavano accanto un "siamo contro l'ideologia gender a scuola". Non esiste l'ideologia gender, esiste però e forte la resistenza al miglioramento della situazione attuale da parte degli ambienti conservatori del Paese.

Da anni alcune di noi promuovono la necessità e il proposito di inserire nella scuola una cosa semplice e indispensabile per attraversare la vita da individui o da parti di consesso collettivo: l'educazione al rispetto delle identità di tutti, alla parità dei diritti e la lotta ad ogni discriminazione. E questa la si conduce isolando gli stereotipi e combattendoli. Ho detto gli stereotipi, non le diversità. Le gabbie, di ogni genere, non le individualità.
State tranquilli tutti: siamo diversi, siamo tutti diversi, ma uguali nei diritti.
Nessuno vuole annullare le diversità, ma molti vorremmo ribadire i diritti, l'eguaglianza dei diritti.
L'educazione ai diritti, su tutti quello alla libertà.

No, non è facile da comprendere né da praticare la lotta agli stereotipi a cominciare da noi adulti, quando tutto rema contro e anche la donna pestata, in modo sottile,  è diventato uno stereotipo. E sono stereotipi immensi la debolezza femminile e la forza maschile. Come quelli di razza o di diversità fisica. Difficilissimi da combattere.
Mi sembra che il racconto delle violenze, sulle donne o sui gay, sia così ossessivamente monocolore da aumentare tali stereotipi. 

Solo con cultura ed educazione si possono mutare linguaggi e comportamenti, e il linguaggio è veicolo potente di pensieri e convinzioni profonde, perché «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», diceva qualcuno. 
Per questo non sottovaluto col sorrisino la giusta determinazione della Boldrini a dare il nome di donna alle donne. E non sottovaluto nemmeno le reazioni, fintamente superficiali, o di scherno, sono potenti reazioni allo stereotipo, appunto.

"Prima ti ignoranopoi ti deridonopoi ti combattonoPoi vinci." diceva Gandhi.

I limiti del linguaggio sono i limiti del mondo. Non sono vezzi grammaticali le parole, ricordo che Averroè ci finì al rogo e fu una delle battaglie filosofiche più accanite quella medievale sui nominali. Se dai il nome a una cosa la riconosci in quanto tale, se non glielo dai non esiste. Semplice. . La cancelliera Merkel non è un vezzo lessicale. Cultura ed educazione per distruggere gabbie apparentemente indistruttibili.
La sostanza è la forma. I giornali sono pieni di donne accucciate nell’angolo con l’occhio pesto e di uomini neri ripresi di spalle, l'uomo nero è sconosciuto.
Ma quando mai? E' il padre, il marito o il fidanzato, con nome e volto; le cinque righe in cronaca sono pieni di «babysquillo» e di mamme discutibili. Degenere la mamma, ovviamente e i padri dove sono?  di donne da difendere persino dalle altre donne, "la svergognata come si è vestita"? di gay vestiti di rosa in quanto gay, e di gay che si offendono se gli dici che non devono vestirsi da gay.
Latitano dai media le facce dei criminali che hanno ammazzato le donne, poveri folli vittime di troppo amore; recano il silenzio le righe scritte di papà assenti, appunto, o non si vedono mai le facce di utilizzatori finali di sesso a pagamento con bambini. 
Sono tutti senza volto, in ombra, stranieri, questi uomini? Non esistono? Vogliamo negarli?

Eppure le statistiche ci forniscono l’incredibile numero dei 9 milioni di maschi italiani adulti che il sesso lo pagano. A prescindere dalla libertà personale e legittima di fare quel che vogliono, tale cifra non preoccupa nessuno? Nessuna redazione vuol metterla in prima pagina? O lo stereotipo è e rimane quello che il sesso è una colpa per le donne, che lo vendono, ma tutta salute per gli uomini che lo comprano? A me non sembra affatto un segno di sana e robusta costituzione. 

Lo stereotipo profondo è che la provocazione sia donna e la vittima sia il provocato? Ne parliamo? 
E che femminicidi, violenze, entità della prostituzione, discriminazioni di ogni genere, omofobia, sono legati da un filo sempre più stretto e visibile, chi lo dice?  Il filo di un'ignoranza palese e di una riflessione collettiva assente.
Numeri che disegnano ormai non tanto una questione femminile e nemmeno più un’abnorme questione maschile, ma un poderoso equivoco collettivo, innaffiato in ogni istante, di mascolinità bandita come orgoglio da non offendere mai. 
 
Le donne sono "capre", se osano definirsi al femminile, e lo dice anche gente di "cultura", segno che lo stereotipo non è figlio dell'ignoranza ma di una cultura che nega alle donne la presenza nel mondo in modo autonomo, libero, indipendente, creativo meno che mai anticonvenzionale.

Non si muta tutto ciò coi decreti dei delitti e delle pene, ma con rieducazione degli adulti, non solo dei nostri figli o figlie. Siamo tutti generatori automatici di stereotipi sessisti e ci stupiamo, ci indigniamo che i ragazzi imitino? I ragazzi imitano.

Acclamare come lecito l’uso mercificato del corpo. E i ragazzi osservano. 

L’uso del corpo attiene alla libertà, vero, ma sul “mercificato” in quanti si interrogano sul serio? 
Eppure il corpo è sacro quanto la persona. Lo è per l’uomo allo stesso modo di quanto lo sia per la donna? Mi sembra che il corpo maschile oggi sia più sacro di quello delle donne o sbaglio? 
Concetti difficili da far comprendere al direttore di un quotidiano, all’amico con cui discutiamo, figurarsi a un adolescente.
I ragazzi osservano e copiano.
Cosa voglio dire? Sto mescolando troppe cose?

No. Voglio dire che la lotta alla violenza di genere deve iniziare dalla lotta agli stereotipi di genere, e ancor prima, da un sano e profondo discorso sulla libertà individuale e sui diritti, sull'identità della donna in quanto eprsona e non in quanto pezzo di qualcun altro. Sul rispetto di se stessi e degli altri,.
La lotta alla violenza sulle donne parte da un confronto adulto su questi temi che ci riguarda tutti. Dovrebbe iniziare subito e subito diventa mai. Con ogni mezzo. E invece usiamo gli stessi mezzi, limitati, della rivendicazione. 

Vogliamo iniziare dalle scuole? Se da qualche parte si deve iniziare, cominciamo da lì. È stata accolta dal governo l’indicazione di adottare un codice antisessismo e di rimozione degli sterotipi nei libri di testo nelle scuole, il codice Polite, per il quale ci siam battute strenuamente per 20 anni. Il Codice è lì, è approvato, eppure è scomparso dai radar. E dunque? Le case editrici lo sanno? Sì lo sanno e persino il Ministero lo sa. Ritengo i libri di scuola, se rivisti in ottica non sessista, il più potente e semplice mezzo contro la violenza di genere che ci possa essere. Eppure stiam fermi. 

Credo che qualcosa stia mutando.
L'articolo di legge nella riforma sulla scuola che introduce l'educazione alle differenze come obbligo scolastico, non ideologico, ma per dare semplice attuazione all'art. 3 della Costituzione che tutti difendono ma tutti disattendono.
La Costituzione non parla ad altri, parla a ciascuno di noi. 
Per la prima volta una circolare è stata inviata dal Miur alle scuole nella giornata contro l'omofobia. Impensabile fino a qualche anno fa. E per la prima volta una preside si permette di inviare una lettera a tutti i genitori contro il nuovo corso che sta arrivando. Perchè? Perchè il nuovo corso sta arrivando.
Ma non basta ancora.
Per la prima volta un articolo di legge sta dicendo che si introdurrà l'educazione di genere a scuola. Non come insegnamento disciplinare ma come atteggiamento culturale trasversale.
Su questo si son messe ancora più in piedi e di traverso le sentinelle del passato.

E' possibile inoltre stringere un patto sano tra stampa, tv e Paese sui temi che riguardano la comunicazione e la rappresentazione delle donne? Dei gay? Delle diversità? Attenzione: nulla da imporre, ma tutto da riconsiderare. 
Non per limitare ma per riequilibrare un racconto sbilanciato e falsato.
Se lo proponi ti tirano le pietre: mai sfiorare il sacro recinto della libertà di stampa, sacrosanto. Ma dall'arbitrio chi ci salva? "Il lettore è il miglior giudice!" Il lettore? Quale lettore? I 9 milioni di uomini che hanno un rapporto patologico col sesso?
Il vero «problema» è l’autodeterminazione e la libertà delle donne? Dei gay? Dei migranti? Sembrerebbe di sì. 
Qualunque sia l’ambito, professionale, culturale o sessuale, il problema oggi come allora è la libertà: alcuni possono averla, altri no.
L’aggettivo "libera", messo accanto a donna assume significati diversi e immaginari antichi, inutile negarlo. E' un limite sociale ancora oggi. Libera come facile. Facile che vuol dire? Esistono uomini facili? C'è differenza? Eccome...
Il limite del linguaggio è il limite del mondo. Vede e rivela.
Ancora oggi la libertà delle donne è un boccone amaro per gli uomini e per le donne stesse, soprattutto quella sessuale e via via tutte le altre; ancora oggi l'unione civile di due persone dello stesso sesso è un'eccezione non digeribile; pensare poi al matrimonio o a crescere bambini impossibile.

Verrà il momento in cui l'amore differente diverrà indifferente? come anche un lavoro differente o una vita differente?
Sono astronauta e mi chiamo Samantha, e allora?
Sono single, non ho figli e non ne voglio, adoro i negozi di ferramenta e mi chiamo Mila, e allora?

Verrà il momento in cui essere differente sarà indifferente in termini di diritti e sarà importante la differenza solo in quanto persona?
Altro che stereotipi, abbiamo statue di bronzo aere perennium. Contro questo vogliamo e dobbiamo lottare e la conoscenza sui diritti è il mezzo più potente per abbattere gli stereotipi. 
Io dico, viva l’autodeterminazione delle donne, degli uomini, dei gay, dei disabili, degli uomini di ogni razza contro la violenza. E anche uno stereotipo lo è.

venerdì 13 gennaio 2017

L'ideologia è viva e lotta insieme a noi.



Non prendetemi per matta ma concedetemi un sorriso se lancio qualche riflessione azzardata.

La morte di Tullio De Mauro, poi di Bauman, poi cattive riletture natalizie, a cascata a partir da quelle, Saussure, Levy, e anche la situazione presente e viva, cioè la caduta del governo, lo spaesamento attuale, dentro e fuori di me, hanno risvegliato in me la metafisica.

Sì, sì, azzardo, la metafisica, visto che i suddetti metafisici non son mai stati, come fuga dall'immensità delle mie inadeguatezze, emotive e razionali, attuali. Parlo del me politico, e divido questo spaesamento con altri, lo so.
No, non è l'analisi della sconfitta, sarebbe facile. E' l'analisi delle sconfitte di senso collettivo che si stanno verificando un po' ovunque e, come improvvise cadute di meteoriti, lasciano un crateri ampio e profondo.
Erano tempi bui ma proficui, scriveva Bettini in un saggio sullo spazio architettonico tra Roma e Bisanzio nel Tardoantico, l'epoca storica che mi sembra la meno lontana da quella che stiamo vivendo: presente tra due immense metafisiche, quella del mondo classico e la nascente medievale.

Il Natale è un periodo ottimo per rifugiarsi come un liceale, in letture matte e disperatissime, nei pensieri grandi, nei pomeriggi infiniti, credendo di trovare una bussola anche per le decisioni piccole.

Potrei dire che la liquidità, o il nichilismo che ne è premessa, rendendo onore a Bauman, mi stia avvolgendo? :-) Perdonatemi se mi concedo l'astrattezza, tipica di una mente matematica, ma senza matematica non si costruisce nulla e non c'è niente di più concreto della matematica, di più poetico della matematica. Torniamo la dunque, lo scrivo e lo affermo. 
Io non credo che le ideologie siano crollate. Affatto, per nulla; anzi. 
No. Decisamente no, non è morta, l'ideologia è viva e lotta insieme a noi, dentro di noi, fuori di noi. E questa è la prima consapevolezza d'inizio d'anno; delle riflessioni filosofiche degli ultimi venti anni non condivido il nichilismo.
La fede e il desiderio di riscatto sociale, le due grandi ideologie che guidano da sempre la Storia, sono assolutamente presenti nel mondo, fortissime. Adesso poi ancor di più. Le crisi sono una fucina di ideologie.
La fede e il desiderio di riscatto sociale. Lo riscrivo. E non credo nemmeno nella crisi dei valori, anzi, quei valori sono vivissimi, tanto quanto la loro disattesa. 
Così forti, fede e desiderio di riscatto sociale, da incidere profondamente anche in una laica come me, o come altri, per i portati morali che recano appresso e per gli eventi ad essi collegati.
Volente o nolente.
Più del capitalismo, che c'è, che sarebbe positivo e che può facilmente collocarsi entro i recinti delle due ideologie.
Cosa significa? Significa che c'è bisogno di sinistra, eccome, ma, per così dire, attualizzandone i modi. Perchè linguaggi, modi e strumenti della sinistra di sempre ruotano nell'aria senza posarsi su nessun terreno perchè il terreno è un altro e allora dovrebbero forse mutarsi.
Grazie, Mila, ce lo ripetiamo da 30 anni. E facciamo bene, e non deve spaventarci l'assenza delle risposte. E' troppo difficile leggere la natura dei cambiamenti, star dietro a loro, prevederne gli esiti.
E allora? Sto disegnando dubbi, dunque problemi, quando la politica dovrebbe dare la soluzione dei problemi.,
Ridefinire la natura i problemi la ritengo già una risposta. 
Sono mutate le organizzazioni dell'azione intorno a quelle ideologie, e le armi, sono mutate le esigenze, sono mutate le teste e anche il dna dell'umano. 
Reali da un  lato, digitali dall'altro. O mischiati insieme?
Quelli sì, sono liquidi.
Il racconto dell'oggi deve partire da questo assunto che è una visione culturale.
Gestire la liquidità, ridefinirla, gestire i problemi, dopo averli ridefiniti, gestire il reale, dopo aver preso atto che è mutato profondamente, ma entro quei due pilastri, sempre uguali, imbattibili nella forza prorompente che emanano.
Una liquidità da gestire non da totemizzare. 

Pensieri strani? Non lo so. Sono comunque pensieri che direttamente vanno a incidere sul tema del rapporto tra culturale e reale oggi. E dunque su quale strada per il "consumo culturale", o per l'assenza di consumo culturale, o il diverso consumo culturale. Non ho cambiato discorso. La cultura disegna l'identità, individuale o collettiva.
Perchè se l'ideologia è viva e lotta insieme a noi vuol dire che lo sono pure i corpi intermedi ad essa connessi e dunque i codici interpretativi o narrativi culturali necessari a trasformare il verbo in azione, e dunque in dimensione politica. 
Qualcuno dice che non vi sia un orizzonte culturale nella politica attuale, o nei politici attuali. Delle due l'una: o non è vera quell'affermazione, o io e tantissimi altri che riflettiamo non siamo politici.
De Mauro aveva scritto molto sui rapporti tra qualità delle democrazie e dati di alfabetismo o analfabetismo della popolazione.
Ci ho messo un po' di testa e tempo, ad incrociare i dati. Non mi convince il dato del presunto analfabetismo. Troppo alto, secondo secondo gli incroci con altre indagini, e appare nebulosa la definizione dell'analfabetismo, come delle competenze da misurare per definirlo tale, anche se l'imbecillità crescente del dibattito pubblico o "social" darebbero ragione a lui e a Eco.
A me sembra una lettura assolutoria, per giustificarci il come non riusciamo a trovare i linguaggi adeguati a fare cultura oggi, a diffondere cultura oggi. Di conseguenza, a fare politica oggi. Perchè corrispondono a  provvedimenti politici inadeguati.
Siamo una congrega di liceali che non vuol piegarsi al tempo che passa e che forse dovrebbe sforzarsi di trovare nuovi codici interpretativi per lo smottamento a cui assistiamo.
No, non siamo in un tempo post ideologico, siamo in un tempo di parossismo ideologico perche le due immense ideologie non trovano cinghie di trasmissione nella comprensione collettiva. Non si spiegano in altro modo i fanatismi individuali e collettivi che ci stanno sommergendo.
E comprenderlo sarebbe la prima via per progettare il da farsi.
Qualcuno lo sta facendo benissimo e scientemente, un papa. Qualcun altro, in altre sedi, dovrebbe farlo altrettanto.