giovedì 29 dicembre 2016

Rete, verità, rispetto e democrazia. Ovvero, educare alla libertà.

di Mila Spicola
Il problema non è dare o togliere voce agli imbecilli, ma educarli, renderli inoffensivi, responsabilizzarli
(commento pubblicato su UnitàOnLine il 29 dicembre 2017)
  


La prima cosa a cui si abituarono fu il ritmo del lento passaggio dall’alba al rapido crepuscolo. Accettavano i piaceri del mattino, il bel sole, il palpito del mare, l’aria dolce, come il tempo adatto per giocare, un tempo in cui la vita era così piena che si poteva fare a meno della speranza.

L’idea che condusse Golding a scrivere Il Signore delle mosche fu un esperimento reale condotto quando insegnava. Divise i ragazzi delle classi di quarta elementare in due gruppi che, sotto la supervisione dell’insegnante, dovevano dibattere su vari argomenti, e la cosa andava piuttosto bene, aveva fornito delle regole d’ingaggio e dibattimento, era contento della classe e di come stava andando. Un giorno il prof. Golding decise di abbandonare l’aula e lasciare i ragazzi, in realtà bambini nel pieno dell’innocenza, in totale libertà, ma dovette rientrare dopo poco per impedire che la situazione degenerasse pesantemente, erano già quasi arrivati alle mani. O mutos deloi oti. Cosa insegna? Che la speranza sono le regole? O il controllo? O la certezza di una sanzione se si sbaglia, poiché, come dicevano i maestri del diritto, sine pena nulla lex? O la definizione dello sbaglio?
Ricevendo la laurea honoris causa in Comunicazione all’Università di Torino, Umberto Eco, scomparso in quest’anno di perdite eccellenti all’età di 84 anni, regala al mondo la sua celeberrima critica feroce dei social network (“diritto di parola a legioni di imbecilli”).
Dicembre 2016, in un’intervista al settimanale belga Tertio, papa Francesco usa toni parimente duri, riferendole ai media, ma potremmo estenderle a chiunque. “Disinformare, calunniare gli avversari politici, sporcare la gente, è peccato, i media devono essere “limpidi e trasparenti” e non devono “cadere nella malattia della coprofilia. - è peccato, trasposto al diritto, è reato - La disinformazione – spiega il Papa nell’intervista – è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità”. Invece, prosegue Bergoglio, i media, ma non solo loro, aggiungerei, devono “essere molto limpidi, molto trasparenti, e non cadere nella malattia della coprofilia, che è voler sempre comunicare lo scandalo, comunicare le cose brutte, anche se siano verità. E siccome la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia, si può fare molto danno”. I media, dunque non solo la rete, per Francesco, “possono essere tentati di calunnia, e quindi essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica.” Dalla coprofilia alla coprofagia. 
2016. “Post verità”, ossia quando la verità è una variabile indipendente. Il referendum britannico sulla Brexit e la vittoria di Donald Trump alle presidenziali Usa fanno inserire il termine “post-truth”, appunto, in italiano “post-verità”, nel prestigioso Oxford Dictionary, che la dichiara parola dell’anno. Post Truth: espressione che descrive l’atteggiamento non solo e non tanto di chi dice il falso, ma di chi considera alla stregua di un optional la differenza tra ciò che è vero e ciò che non lo è: spacciando indifferentemente argomenti sensati o meno – senza darsi pena di consentire una verifica – a seconda dei propri fini e dei propri interessi del momento, basterebbe chiamarle menzogne. 
2016, Germania. In questi giorni, la coalizione di governo sta pensando a introdurre una nuova legge che prevede multe fino a 500.000 euro alle aziende che, operando nel settore dei social media, dopo una segnalazione non provvedano prontamente a rimuovere una notizia falsa entro 24 ore. Le preoccupazioni starebbero nascendo a causa dell’approssimarsi delle elezioni e dal timore che le notizie false possano influenzare il voto come secondo alcuni sarebbe già accaduto negli Stati Uniti o per la Brexit.  
2016, Unione Europea. Il presidente del parlamento europeo Martin Schulz ha sollecitato lo sviluppo di leggi a livello europeo per meglio affrontare il problema. 
Dicembre 2016, Italia. Il ministro Andrea Orlando rilascia sull’argomento un’intervista al Foglio, l’intervista diventa virale proprio sul web. Pubblicata sul suo profilo facebook viene letta, discussa e condivisa da migliaia di persone, ha colto nel segno.Ma il segno qual è? Approfondisce e rilancia; la netiquette coinvolge temi profondi e grandi: i gradi di separazione che si sono annullati, i corpi intermedi che sono in crisi, la responsabilità del vero e del falso, la verità come optional; cose da agitare con estrema cautela come la glicerina, il mix è esplosivo e ad esplodere è la democrazia. 
E’ necessario introdurre delle regole, delle sanzioni per le grandi aziende del web, che ormai, come ha ammesso lo stesso Zuckenberg, agiscono come media company, quando non rimuovono notizie false? Temi complessi, per coloro ai quali interessi approfondire il rapporto tra società, singolo e grandi colossi del web, consiglio un bel libro di Franco Introini, Comunicazione come partecipazione. Tecnologia, rete e mutamento socio-politico, che molte cose le metteva insieme già nel 2007, senza averne ancora sperimentate le conseguenze cui abbiamo assistito nel corso di questo anno di eventi non tanto imprevedibili, se si fosse letto di più e bene; nel libro l'autore introduce  i concetti di autoregolazione e gli albori dello “scetticismo sistematico” come codice interpretativo della rete. Ditemi se non ci siamo in pieno, nello scetticismo sistematico e nel suo uso strumentale. Internet è o non è luogo di apertura e libertà? Oppure sono galassie che possono essere strumentalizzate, condotte, indirizzate, deviate, da false o vere chimere, e a poco serve la speranza dell’autoregolamentazione o della trasparenza poiché la notizia falsa, abilmente veicolata e resa virale, non viene contrastata efficacemente dagli anticorpi dell’autoregolamentazione. Non basta.
Uscire dall’astratto al concreto: è sufficiente assegnare una sanzione alla media company? La responsabilità sarebbe nel mezzo? O il mezzo ha la sola funzione di identificare le responsabilità? La responsabilità, come la libertà, si  declina al singolare, diceva la Arendt. Aiuta forse la sanzione al mezzo, alla media company, ma non è tutto, non è sufficiente, servono regole e vanno ridefinite le responsabilità penali dei singoli. 
Ritengo anche che il tema agitato della “censura come limitazione della libertà” sia un falso problema. Vanno ridefiniti senso e azione dei corpi intermedi, perché non esiste “la mia ragione”, il mio interesse legittimo, che contratto direttamente e  in verticale, bensì, per stare insieme va ricostruito il luogo di mediazione delle ragioni, degli interessi legittimi, che spesso sono contrapposti. Tra i corpi intermedi inserirei non solo partiti e sindacati ma anche la borghesia e la crisi del suo ruolo sociale. 
Ribadiamo un lessico essenziale, prima che rimaniamo impigliati nel troppo complesso? La libertà personale termina laddove inizia la libertà altrui, elementare Watson, eppure ce lo siam dimenticati. Libertà e libero arbitrio son cose diverse. Menzogna, diffamazione, calunnia, razzismo, sessismo sono reati e, in quanto tali, perseguibili. Di più: tornare a educare chi cresce, non servono parole nuove per peccati antichi. Che poi li si chiami “incitamento d’odio” poco cambia. 
Non può essere solo Facebook a combatterlo, ”il responsabile”, il problema non è dare o togliere voce agli imbecilli, ma educarli, renderli inoffensivi, responsabilizzarli, sennò sarebbe un’eterogenesi dei fini che non va alla radice del problema, che è sociale e individuale al tempo stesso.
Chi sottovaluta, ignora, equivoca non assicura nessuna libertà, semplicemente fa un danno alla legge e al vivere sociale. Lascia sola la classe, lascia aperti e assoluti i cancelli delle ragioni senza mediazioni. Sia che si calunni nel “mondo reale” sia che lo si faccia nel “mondo virtuale”, nulla cambia. Come ci insegna Goblin, non esiste il tempo in cui la vita è così piena da poter fare a meno della speranza, come non esiste un mondo senza regole, che vanno rispettate e fatte rispettare, fuori e a maggior ragione dentro il web. Non esiste l’innocenza, lo spontaneismo del web come antidoto ad elites che hanno tradito, perché chi strumentalizza le emozioni tradisce ancor di più.
E questo sono campagne di opinioni false virali. Non son discorsi leggeri, in gioco, come ha ben detto Orlando, c’è la democrazia. Evoco un confronto, non so come e non so dove, che conduca a un sistema di regole organiche che riguardino sia i media, che le media company, che i singoli e, insieme alle regole, controlli (autocontrolli?) e sanzioni.

venerdì 16 dicembre 2016

Il passo avanti che c'è da fare

Il passo avanti che c'è da fare
di Mila Spicola

commento comparso su L'Unità in edicola il 16 dicembre 2016

Dopo la botta referendaria, perché di botta si tratta cosa possiamo fare se non leggere? Leggere, leggere, leggere per trovare non dico risposte ma ascolto, ed è già una risposta. A come Ascolto, stiamo ascoltando quello che ci hanno detto il 60% degli italiani col loro no e più del 70% dei siciliani e dei campani? Perdonate la prospettiva, non è campanile, è coscienza del peso specifico. B come Basta, leggo questo in quel no, basta, rimane da capire la natura dei basta e metterli in fila, ma sono chiarissimi, chi non li vede è perché non li vuol vedere; basta disoccupazione, basta fame, basta corruzione, basta ipocrisia, basta menzogne, basta assenza di partecipazione e coinvolgimento. C come Calvino. Nei suoi “Appunti per un programma politico per i prossimi vent’anni” chiede, a me che faccio politica, di “puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione. Anche fare dei calcoli a mano: delle divisioni, delle estrazioni di radici quadrate, delle cose molto complicate. Combattere l'astrattezza del linguaggio che ci viene imposto, con delle cose molto precise. Le cose che richiedono sforzo; diffidare della facilità, della faciloneria, del fare tanto per fare."​ 

Per grandi linee abbiamo davanti a noi ​chiari ​i problemi: la mappa del no coincide con la mappa della fame. Il lungo inverno del nostro scontento. Per me è questa la priorità. Durante la campagna referendaria chiedevo “perché voti no?” ​ Nella graduatoria delle risposte possibili come delle impossibili in cima c’era il lavoro. Con una connotazione precisa: l’incertezza, dolorosissima sul viso dei giovani. La mappa del non lavoro giovanile è così grande da coincidere spesso con la mappa del no, coprendo e nascondendo completamente le ragioni del quesito referendario.
Urge un’analisi comune del voto. Di analisi singole ne stiamo facendo a iosa, ma la politica è quella cosa che si sortisce insieme, sennò rimane puro esercizio di stile. Urge trovare un modo per ridare protagonismo sociale a quanti adesso lo chiedono, la richiesta ci viene chiarissima dalla quantità dei voti. L’indifferenza opera potentemente nella Storia e questa volta no, non lo è stata l’Italia indifferente e questo fa eccome la differenza, “la disaffezione alla politica” ha assunto il volto nuovo di un assalto alla politica, di un assedio. Beh, come cantava il poeta: “il tuo amore è un assedio”, c’è voglia di fidarsi e di affidarsi pur nella diffidenza. Tanti e tali sono i problemi. Qualcuno ci sta chiedendo aiuto. 

Urge una riflessione sul partito, sui partiti. ​Come luogo per mettere intorno a un tavolo le persone per discutere dei problemi. Corpo intermedio necessario. Urge una riflessione sul  nostro ​ partito​, il Partito Democratico​, su struttura e organizzazione, innovando ma non perdendo identità​. Fabrizio Barca ossessivamente lo ricorda. ​Urge anche una discussione sul senso del nostro Partito, cioè ritrovare i temi e i modi di una politica sociale.​ Non so se mi convince la sua proposta, non so se mi convince la mia, perché anche io ne avrei una e mi piacerebbe parlarne da qualche parte, una proposta va fatta, perché tra le cose carenti la più carente, in questa campagna referendaria, come in quella delle amministrative immediatamente precedenti, è stata la struttura centrale e periferica del partito; ancora una volta, va fatta insieme, in una riflessione comune, di grazia: dove? Quando? Come? 

Il tema dei divari. È il tema dei temi, insieme a quello del lavoro. Geografici, Economici. Culturali. Sociali. Di genere. Formativi. E potrei continuare. “ Le cose che richiedono sforzo; diffidare della facilità, della faciloneria, del fare tanto per fare.” Evitiamo le caricature sul Sud, sui giovani, sulle donne, sugli insegnanti e via dicendo. Riflettiamo insieme su questi temi, temi possenti, potenti e di sinistra, mettiamoci intorno a un tavolo, questo è fare politica, mettersi intorno a un tavolo, possibilmente coinvolgendo e facendo partecipare volta per volta i protagonisti, le persone del Sud, i giovani, le donne, gli insegnanti, che non sono personaggi in cerca d’autore o portatori d’interesse di categoria o di corporativismo, sono esattamente le persone alle quali dovremmo risolvere i problemi ascoltando quei problemi. 

Ogni crisi è opportunità, non opportunismo​; evitiamo di dare uno spettacolo di opportunismo in questo momento, ogni riferimento al governo in carica è puramente casuale e voliamo alto verso le opportunità. Spieghiamolo bene quel che si sta facendo adesso e perché, come ha detto Cuperlo in Direzione, il rischio, nel rappresentare opportunismi e non opportunità, non è il voto, ma il risultato. ​Il rischio è confondere i mezzi coi fini, noi siamo i mezzi, i fini sono i problemi delle persone, non viceversa. ​Non ho usato la parola populismo, diffidare della faciloneria.

mercoledì 14 dicembre 2016

Direzione pd: traccia completa del mio intervento

Direzione pd: traccia completa del mio intervento



VOTO
Qualcuno diceva che l’indifferenza agisce potentemente nella storia; il referendum per fortuna ci rivela un’Italia che non è per nulla indifferente. Anzi, ha fatto la differenza. Ma ha fatto la differenza perché ha voluto chiaramente dirci qualcosa. Bello il 40% tutto per noi, potrei dire da sostenitrice del governo appena concluso. Tutti voti intorno a Renzi e a una radicale proposta di rinnovamento del Paese? Qualcuno dice di sì, qualcuno di no, lo vedremo. 
Eppure quel che mi tormenta è il 60%, anche se ho la profonda convinzione che su quel 60% ci siano ampi margini di recupero.

C'è un vento di scontento e populismo che attraversa tutto il mondo, inutile concentrarsi sulla riforma. Tra chi ha votato no, nessuno ha votato sulla riforma,ma sul suo scontento. C'è anche un pericolosissimo modo di strumentalizzare tale scontento, con falsità. E anche questo attraversa il mondo, e si scaglia con chi governa, chiunque esso sia.
Adesso allora concentriamoci sulle ragioni dello scontento e sul problema della strumentalizzazione dello scontento. Il populismo è effetto non causa dello scontento. Affrontiamolo prima che ci travolga, non dopo, e credo che si possa fare, ragionando tutti con franchezza.
 La mappa del no coincide con la mappa della fame. Certo, c’è la parte degli scontenti per altro, per riforme non comprese o che andavano tarate meglio, o condivise di più. Ci sono i no di posizionamento, anche dentro questa stanza ce ne son parecchi. Ma il grosso del no coincide con la mappa della fame.
Le analisi dicono che le maggiori percentuali di no non sono tra studenti, docenti o impiegati. Leggiamoli bene, sono tra disoccupati,giovani o meno giovani, casalinghe e imprenditori. E’ la mappa del lavoro che è diventato non lavoro, per la crisi, per la globalizzazione, per i mali delle clientele ataviche che oggi non trovano più appigli, per tutto quello che volete, .
E dove si trovano? Quasi la metà dei residenti nel sud e nelle isole (46,4 per cento) è a rischio di povertà o esclusione sociale, in Sicilia (55,4 per cento), Puglia (47,8%) e Campania (46,1%).
E’ stato un voto populista? Non sia il populismo il capro espiatorio, non è “colpa del populismo”, le colpe sono da rintracciarsi nelle mancate risposte allo scontento.

GOVERNO
Possiamo dirci, ed è vero, che noi questo scontento lo abbiamo affrontato. Come governo, ci abbiamo provato, e i dati in crescita ci dicono che comunque qualcosa è migliorata. Molte misure a contrasto della povertà, molte misure di sinistra, sì, di sinistra. I problemi si sono affrontati tutti e non si sono elusi, ma è presto per sentirne gli effetti, e comunque qualcosa va rivista perché siamo in mezzo a una crisi immensa, a cambiamenti immensi e non sono mille giorni di governo che possono risolvere tutto.

PARTITO
Possiamo però dirci che, come partito, questo scontento non lo abbiamo affrontato? Non ci siamo. Nei luoghi dello scontento il partito non c’è. A me colpisce molto quando qualcuno di noi, tanti per la verità, parlano di periferie. Lo fa Speranza, lo fa Bersani, lo fai anche tu Matteo. Dobbiamo concentrarci sulle periferie, dite spesso. Sulle diseguaglianze sociali. Dobbiamo riprogettare le periferie, i rammendi…per carità..tutto bello bellissimo.
Rammendo estetico? Beh, no, dovremmo parlare di un rammendo economico, politico, culturale e sociale che nessuno tra voi qua dentro è in grado di fare, perdonatemi se ve lo dico. Semplicemente perché spesso non sapete nemmeno di cosa parlate. Tra di voi chi ha lavorato, vissuto o praticato le periferie? I luoghi dello scontento? Chi di voi ci vive o lavora?
E il partito? Il partito c’è? Quanti circoli abbiamo nelle periferie, caro segretario? Nessuno. Abbiamo tante segreterie di eletti del pd al Sud, quelle sì, che pullulano di gente in difficoltà. Qualche domanda fatevela, quella gente nel segreto dell’urna ci vota contro, perché non ne può più di anticamere nelle segreterie a chiedere cose che magari non può avere o non è giusto abbia, e continuiamo a dare forzando, mentre non siamo capaci di dare l’unica cosa che dovremmo dare: politiche adeguate.
Avete una sola idea di quel che si vive in una periferia, non perché lo avete visto nel film di Jeeg Robot, ma perché vi ci siete trovati e scontrati? Alzi la mano chi di voi si è ritrovato a dover scippare un coltello dalle mani di un bambino di 10 anni che lo stava per conficcare a un compagno e poi rimanere impietrita di notte a piangere e basta. Alzi la mano chi si è trovato e si ritrova a fare le collette dei libri per una ragazzina che va al liceo e in una regione in cui il presidente a marca pd non ha mai messo un euro per questo e a dover cercar voti per quel partito e a doverlo sostenere quel presidente!  Se cercate lì i voti il giorno del voto, senza esserci stati nei due anni precedenti, è inutile fare lo sforzo persino di bussare. Non vi aprirà nessuno, come cantava il poeta. Una Politica senza politiche oggi è inutile e direi detestata.
Una Politica che non ascolta oggi è inutile, perché persino l'ascolto è pur'anche una risposta.

TEMI
A torino un bimbo va a scuola per 8 ore e il problema è che sua mamma non gradisce il cibo che gli danno e gli vuol dare il panino, A palermo un bimbo a brancaccio va a scuola per 4 ore e il problema è che non ce l’ha il panino o il cibo caldo a scuola. Ha il pezzone di rosticceria a 50 centesimi, per strada, e si ingrassa e si ammala, ed è pure fortunato quando ce l’ha.
Alzi la mano chi sta affrontando questo divario. Non il problema locale, ma il divario nazionale.  Il 92% dei bambini di palermo non ha il pasto a scuola mentre a torino il 92% lo ha. E ci chiediamo le ragioni del no disquisendo sul bicameralismo perfetto?
A me non interessa individuare le colpe, a me interessa trovare le soluzioni. In quel 92% di bambini senza pasto a scuola si annida un 46% di bambini che non ce l’ha nemmeno a casa. Le loro madri votano no. No, no, no no. Le loro madri, senza asili, senza sostegni, senza lavoro, dicono no.
In questi ultimi tre anni qualcosa si è cercato di fare, quanto meno abbiamo messo sul tavolo il problema. Anche se qualcosina ai nostri rappresentanti locali dovremmo pur dirla, perché spesso remano persino contro.  E anche noi dovremmo pur dircela, al di là delle parti.
Un tale mi ha detto che questa è retorica della povertà. Perdonatemi, passami una brioche, Antonietta, io sto andando a fare la rivoluzione contro questo qualcuno.
Chiunque ci sia adesso, tra un mese, mi auguro che non butti di nuovo 600 milioni di euro di fondi ue in una pioggia di progettifici scolastici al sud contro la dispersione che da 20 anni si fanno. che portano soddisfazione in chi li progetta non nei bambini che li seguono. Oppure affidiamo tutto agli economisti che nulla sanno? Perchè non ci fidiamo abbastanza di chi queste cose le studia e lo chiamiamo? Ci direbbe semplicemente che i progetti non servono. Questa è la riforma che serve e che coprirebbe metà dello scontento e metà del populismo. E’ una proposta populista? Chiamiamola metadone, che devo dirvi. Al populismo di chi ci vuol male oppongo il populismo di dare il pane a chi non ce l’ha e scuola a chi ne ha poca.
Pane e scuola, scuola e pane. E allora le assunzioni nella scuola sarebbero state lo strumento, non il fine.
Asili. donne. disoccupati.  Welfare. Welfare. Welfare. Sono temi atavici, alcuni allargano le braccia. Io no, perché ho chiarissimo da dove ripartirei. Crocetta e il governo hanno firmato da poco un patto della sicilia: quanti soldi ci sono per asili, pasto caldo all’infanzia e sostegni alle donne? Zero. Non vorrei dire ma di questa politica maschile e al maschile e per il maschile al Sud ci siamo tutti strarotti i cosiddetti. E’ inutile, è inefficace, è opaca, è miope.
Siamo arcistufi di una politica che riparte da zero ogni volta per rifare gli stessi errori e con le stesse persone, con tutto l’affetto e la stima per quelle persone.
Sono qui per quei bambini, se non riesco a risolvere uno solo dei loro problemi sono anche io parte del problema. Se non riusciamo qua dentro a risolvere uno solo dei loro problemi siamo anche noi parte del problema e per questo ci spazzano via e fanno bene.
Se lasciamo la nostra gente in balia della tempesta è ovvio che si rifugerà nel populismo, nelle false verità. Non possiamo fare sconti, certo, nessun regalo o regalia, ovvio, ma giusti investimenti sì. 764 milioni di euro del 'Patto per Palermo' da spendere in mobilità, infrastrutture e riqualificazione urbana …cose bellissime ma non si mangiano. Eppure mi pare che in Sicilia ci troviamo di fronte a regalìe, non a investimenti per quei bambini e quelle mamme. Sono priorità che né d’alema, né bersani hanno affrontato, diciamolo, quando ci si son trovati a poterlo fare; sono priorità che vanno sanate con azioni strutturali e di sistema, non con azioni discontinue e parziali; con azioni che coinvolgano le persone non che le escludano, e a questo dovrebbe servire una struttura capillare di partito in ogni angolo di città o contrada.

SICILIA
Quel 70% di no in Sicilia è l’urlo della mia gente, io sono intenzionata ad ascoltarlo e loro, lo so, ad ascoltarci; se noi ascoltiamo loro. Posso gioire per il 30% ma devo occuparmi di quel 70.
Se il pd, tutto, matteo, bersani, il compagno d’alema, franceschini, speranza lo affrontano insieme, il problema della mappa della fame, dei bambini e delle donne, COSA CHE NESSUNO HA MAI FATTO FINO AD OGGI, con un partito unito sui temi, sui suoi temi, che sono quelli di sempre abbattere le diseguaglianze e dare pane e scuola, sulla sua storia, sulla sua identità, che rappresenta non il passato ma il progetto,

COME?
Con metodi nuovi, innovando le forme della partecipazione, nel partito, nel sindacato, combattendo comunque le rendite di posizione, perseguendo un riformismo possibile e partecipato intorno ai problemi delle persone, non intorno agli schemi di partito,  alle rendite, o ai corporativismi, ma nemmeno intorno alle narrazioni, se prima non le hai divise e condivise, perché che l’italia sia un grande paese lo sappiamo, ma la parte di paese che non ha nulla e ha paura del futuro va messa in sicurezza.
I giovani vanno messi in sicurezza disegnando percorsi certi, non salti nel buio: con percorsi formativi efficati e orientamento vero, con imprese che si leghino a quei percorsi formativi prima, con senso di responsabilità, con alleanze con il mondo dei docenti, sia di scuola che accademici, non con scontri o diffidenze, gli uni verso gli altri.
Occuparsi del welfare delle donne, altro grande tema, che darebbe slancio a una parte del paese di cui si parla troppo e male, e si fa peggio e poco,  non solo fuori dalla politica ma anche dentro alla politica. 

Ecco, con un partito unito su questo progetto, e non diviso sulle poltrone, con persone competenti e che hanno i meriti per portarle avanti,  ce la faremo.

Sennò, se rimaniamo divisi e occupati a disegnare schemi e destini personali, rassegniamoci, a salvarci non saranno nessun bellissimo dibattito sulle periferie, sulle riforme, sull’innovazione, o sulla sinistra che vorremmo e mai ci sarà, no, no,verremo travolti prima che dalle nostre divisioni dalla Storia.

lunedì 8 agosto 2016

Tenga il Resto. Del Carlino.


L’ho vista per caso in una rassegna, la foto che riportava il titolo di un articolo sul Resto del Carlino.
Mi è salito il sangue alla testa ma credo che solo l’ironia possa in certi momenti essere d’efficacia. Il titolo recitava “Il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo”. Argomento: la quasi vittoria delle nostre atlete del tiro con l’arco. E’ stato un attimo ed ecco pronto il tweet rivolto al profilo del Resto del Carlino: “ Signora, vuole il Resto del Carlino? No, grazie, se lo tenga @qn_carlino #rispettodellapersona”. E’ stata una sorpresa vedere che in poche ore veder diventare virale il tweet? No. Il vento sta mutando, se prima ciascuna di noi preferiva evitare, minimizzare, rimanere sul piano del “che sarà mai, è una battuta, dai”, adesso non è più così. Non solo: l’indignazione, lo sberleffo per quella testata giornalistica sono arrivati da ogni parte, sesso, latitudine e longitudine. E dico di più: il paese sta cambiando sul rispetto di genere cominciamo adesso ad essere tutti molto più attenti, è bene che le redazioni, noti covi maschilisti ( con affetto e rispetto), se ne rendano conto, perché l'essere completamente fuori trend semplicemente contribuisce alla già grossa crisi di vendite. La fetta di pubblico che legge e compra giornali, che non sono tanti, si sa, ma è pubblico attento, sta maturando sempre di più consapevolezza anti sessista, specie in mesi di proteste e indignazione contro violenze e femminicidi. Il sessismo non va più di moda. Con buona pace se ne accorgerà anche Salvini. 

Non ho mai digerito le battute sull’aspetto fisico delle persone, specie quando fuori contesto, è una cosa indigeribile, sgarbata, che raggiunge e supera la cafonaggine. Potrei forse ammetterla in contesti intimi, ma proprio forse. La puoi fare a tuo marito, a tua moglie, a un amico, in contesto personale e scherzoso, ma farla ad altri e in pubblico è brutto, imperdonabile poi se lo si fa in contesti ufficiali, sminuendo professionalità e lavoro altrui, è mancanza di rispetto. Vale sulle donne, e si entra nel terreno periglioso del sessismo, nervi scoperti e piaghe antiche e recenti provocano bruciore come chilate di sale buttato addosso a quelle ferite. Ma vale anche sugli uomini. Pratica odiosa sbeffeggiar per l’aspetto.
Per completezza d’informazione, il garbato direttore del Resto del Carlino Giuseppe Tassi, ne sono convinta in assoluta e bonaria buona fede, nel suo editoriale ha scritto: “E poi ci sono le donne, le magnifiche donne d’Italia che fanno la loro parte con l’argento pesante di Tania Cagnotto e Francesca Dallapè, prima medaglia femminile nei tuffi conquistata con la grazia di due mannequin. E ancora l’argento rabbioso della judoka Giuffrida, 21 anni e il bronzo della fatica firmato dalla Longo Borghini nel ciclismo. Per finire con la medaglia di cartone delle ragazze dell’arco. Non hanno il fisico da indossatrici, portano goffi occhiali ma da 70 metri centrano il bersaglio. E il cuore degli italiani.” 

Allora, cominciamo da capo, con garbo e pazienza: le atlete italiane non sono mannequin, a loro non si chiede d’essere belle, ma di essere atlete. O meglio, non glielo chiediamo nemmeno di essere atlete, ce lo regalano. Ci regalano il loro impegno, il loro sudore, la loro fatica e i loro risultati. Per quello noi le sosteniamo, lo stesso vale per i nostri atleti. Nello stesso identico modo. Apprezzarne o meno la bellezza è da riferirsi ad altri piani e ad altri contesti. Il loro mestiere è essere atlete. Immagini se, egregio direttor Tassi, il prossimo suo editoriale, noi lo si commenti con un “un bell’editoriale, però.. che gambe storte che ha Giuseppe Tassi, peccato che non sia uno strafigo della madonna, anzi, è così così, un po’ bruttarello, cammina anche male, altrimenti sarebbe un ottimo direttore del New York Times”. Firmato “le magnifiche donne d’Italia”. 
Ha inviato una bella lettera a Giuseppe Tassi il presidente della Federazione Italiana del Tiro con l'Arco, chiedendosi anche lui se questo sia giornalismo serio, no, non lo è. 
Però questa volta, sui temi del rispetto della persona, si sono sollevati uomini e donne dell’Italia di domani, si spera migliore di quella di oggi e di ieri. A prescindere che lo capisca o meno il direttore, le vendite dei quotidiani così impostati caleranno, se non sono giornali scandalistici, mi pare questo non lo sia. L'arroganza o la presunzione di una reazione piccata non pagano, specie quando si è in torto evidente. Si tenga il Resto.


Inviato da iPhone

martedì 12 luglio 2016

L'impolitica femminile

L'impolitica femminile


In altra sede scriverò della disputa sul "valore politico dell'essere madre" a cui ci hanno appena fatto assistere due donne ai vertici della politica inglese, memore della polemica italiana di simile verso che ha riguardato i nostrani Bertolaso e Giorgia Meloni, passando per lo scranno da sindaco occupato dal figlio della Raggi. 
"Esibizioni"? "Stereotipi"? "Polemiche superate"? "Non parliamo di genere bensì di competenze"? "Che mi frega se è donna, l'importante è che sia brava"? (Domanda che non facciamo agli uomini, lo diamo per scontato, a ben osservare tanto scontato non sarebbe)? "Che mi frega se sia madre?" (E poi in realtà su quello stereotipo o negazione dello stereotipo cadono le teste) e chi più ne ha più ne metta.
Sembrerebbe "non fregare a nessuno" epperò i fatti indicano altro: il rapporto donne, politica, maternità è un nervo scopertissimo e non risolto, come la fai, anzi, come la dici, sbagli.
Ci rifletterò qualche giorno prima di scriverne ancora...mentre rifletto e cerco mi ritrovo in rete.
Scrivevo sei anni fa l'articolo che segue. Scadeva il primo mandato Napolitano e, al solito, si affacciava l'ipotesi della candidatura femminile per la Presidenza della Repubblica.



giovedì 11 aprile 2013


Mila Spicola: l'elezione del Presidente questione di competenza sì, ma anche di rappresentanza

L’elezione del Presidente della Repubblica non è una questione di genere ma di competenze. 
"Vero, concordo", scrive oggi Mila Spicola; ma poi ci racconta una cosa: 
In una delle mie classi, un paio di anni fa, le ragazze erano 19 e i ragazzi 10. Dovevano eleggere il rappresentante e giustamente Mario disse: “Se io mi candido voi mi votate anche se son maschio e voi femmine siete di più?” 
Il dibattito fu accesissimo e le proposte molteplici. Tra cui persino l’ipotesi di proporre alla preside di riequilibrare il numero di ragazzi e ragazze nella classe. Si addivenne a una rosa di candidati proporzionale al genere e poi al criterio, in seno a quella rosa, della libera scelta. Era una seconda media, età dei ragazzi e delle ragazze 12/13 anni sulla carta, ma come saggezza di proposizione del problema molti ma molti di più. Una piccola e normale classe di saggi, non sempre saggi attenzione, perchè in fondo sempre ragazzini erano e vari e mutevoli come ciascuna categoria dell’umano consesso. 
Ma in quell’occasione la domanda di Mario mi stupì, tanto che avevo deciso di farne azione didattica e di dedicar alle loro discussioni un’ora intera delle mie misere due settimanali, con richiesta alla collega dell’ora successiva di farli continuare.

Dunque l’elezione del Presidente della Repubblica non è una questione di genere ma di competenza.
Vero concordo. Ma di rappresentanza sì, sembrerebbe, per quanto sollevò Mario in classe. 
Vediamo di capire come è composta e con quali criteri la rosa degli elettori del Presidente.
Ad oggi persino la parte criminale del paese sembrerebbe rappresentata da alcuni inquisiti nominati tra i grandi elettori. Non so se equamente, ma c’è. Le donne invece, che devono per forza e ovviamente essere limpidissime e cristallinissime e che sono il 52% del paese, hanno addirittura una presenza di 5 donne su 58 componenti. 
Ma che volete che sia? 
Maria non sa dove alzar la mano per essere ascoltata per fare, al femminile, la domanda di Mario.
Tutti gli uomini son stati scelti col solito criterio: ci devono stare. 
Perché il meccanismo e la regola di selezione portano a loro la maggioranza. Le 5 donne con lo stesso criterio risultano minoranza. Criterio maggiorato da una clausola tacita: purché siano wonder woman.
Ovviamente questo non vuol dir nulla. L’elezione del Presidente non sarà una scelta di genere, ma assolutamente di competenza. Certo, come no. E persino a 58 uomini può capitare che, insieme a tutti i parlamentari, sceglieranno per assurdo una donna. Per assurdo, lo riscrivo.
Un  uomo vota una donna non so quanto per le sue reali e vere competenze, come farebbe una donna con un’altra donna (inciso: le donne esitano parecchio prima di votare una donna, il giudizio è spesso impietoso), ma perché per adesso fa politicamente corretto scegliere una donna, crea consenso e fa figo e nuovo.
Sapete che c’è? Fosse solo questo il motivo dei componenti uomini per scegliere una donna, e ho il fondato sospetto che solo per questo motivo saran “costretti” a sceglierla, tanto meglio.
Dopo 80 anni di Presidenti uomini e non tutti all’altezza, scegliere una Donna Presidente andrebbe bene per i prossimi 80. Valida, ovviamente. Alle donne non sia mai e poi mai perdonato di non essere all’altezza, tanto quanto lo si perdona a taluni impresentabili uomini. Anche su questo ci sarebbe molto da dire e da fare, affinché non venga perdonato nemmeno agli impresentabili, che comunque ci ritroviamo sempre là con scarsi moti di vergogna.

PS Non so se fu incredibile, casuale o normale, o cosa, ma in quella seconda  classe della scuola media venne eletto come rappresentate un ragazzo e come vice rappresentante un altro ragazzo. Salvo poi dimettersi entrambi dopo qualche mese per dare spazio alle due compagne dietro di loro e dopo qualche mese di nuovo dimissioni e rotazione. Per loro spontanea decisione. 
Alla fine dell’anno, tornando stanchi da una gita a Marsala, discutemmo in pullmann della cosa, che aveva avuto i pro e i contro, e conclusero, tra una canzone e un ci fermiamo che dobbiamo andare in bagno,  che “Comunque, sa prof? Anche questi compagni maschi son bravi!”
E ripartirono le discussioni… La vita, l’Italia, fuori da quella classe, in cui difendo con le mani e i denti i miei piccoli uomini e le mie piccole donne, è davvero un altro mondo, almeno finora e assisteremo a un altro romanzo, quello in cui, “Sai che c’è? Persino le compagne femmine son brave.” E sarà meglio di “la votiamo perché è una donna”.
Mila Spicola, 11 aprile 2013 Fonte: Donne da romanzo quirinale

sabato 2 luglio 2016

Sapere, saperi, conoscenza, conoscenze, competenza, competenze


                                                      Torre di Babele, Tobias Verhaecht

"Dio, non permettermi di giudicare o di parlare di quel che non conosco o non capisco" Anton Cechov

 Qualche riflessione su un articolo di Settis (lo trovate qui: http://www.linkiesta.it/it/article/2016/02/07/salvatore-settis-la-buona-scuola-non-e-buona-e-le-competenze-non-servo/29179/ ).


Cercherò di andare per punti e con linguaggio il più semplice possibile, anche se trattasi di temi complessi. In effetti Settis ha sovrapposto molti piani, come senso e come significato, alcuni sovrapponibili altri no, e forse è il caso di separare, definire e tornare indietro.

 Partiamo dal titolo: “la buona scuola non è buona. E le "competenze" non servono a niente” Sono due opinioni legittime, ma vanno declinate separatamente perché Buona Scuola e competenze  nascono in periodi e contesti diversi. Rimane da verificare ad esempio se le declinazioni operative della Buona Scuola disegnino una scuola delle competenze, e va ribadito a quanto pare che la “scuola delle competenze” (per approfondire basta digitare “competenze” su google) non è l’invenzione italiana di “pedagoghi nostrani” (mi auguro non fosse detto in senso riduttivo, visto che l’Italia ha regalato al mondo intero Maria Montessori e Aldo Visalberghi) ma punto di arrivo di un percorso di elaborazione comune della ricerca educativa internazionale che va dalla seconda metà del secolo scorso e per poi essere accolta da molti sistemi d’istruzione, compreso quello europeo, prima con il trattato di Lisbona del 2000 , poi con la risoluzione europea del 2006  sulla definizione delle competenze chiave (la trovate qui: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV%3Ac11090 ). Risoluzione recepita dall’italia nel 2007 sotto il governo Prodi, con il decreto sulle competenze chiave e di cittadinanza.  Poco c’entrano dunque “Berlinguer e i suoi esperti” e ancor meno “Renzi e la Buona Scuola”, se no nella misura in cui questi governi, ma anche quelli i mezzo, si sono trovati a recepire direttive comunitarie. Va detto che tali direttive tutto son state fuorchè calate dall’alto, nella scuola, soprattutto nella primaria, tali nuovi indirizzi pedagogici erano già in corso, la ricerca ha qualità  e possibilità di diffusione intrinseche. Non serve che un governo adotti l’aspirina, se l’aspirina salva si diffonde da se. Un governo al massimo può ratificare. Direi una cosa dunque cerchiamo di analizzare termini e senso dei problemi che riguardano il mondo della ricerca educativa tenendo da parte dinamiche partitiche e di governi, se non nella misura in cui alcuni governi abbiano accolto o meno elaborazioni internazionali di tale ricerca. Semmai sarebbe da analizzare il rapporto (strutturato, non occasionale o discrezionale) tra ricerca educativo e sistema d’istruzione italiano. Abbastanza presente nella scuola primaria, completamente assente nei cicli della secondaria. Alcuni temi e problemi dunque, in buona parte degli “operatori della conoscenza”, e non mi riferisco a Settis, ma anche ai docenti, mancano persino di base lessicale comune. Questo non significa che “nessuno possa parlare di scuola”, ma che la “cognizione di causa” parte anche dalla banale intesa sui termini, ad esempio. Cosa sono e quali sono, come si maturano e come si valutano le competenze di cui si sta parlando? Sulle prime due domande qualche risposta il comune cittadino la può trovare  (e dovrebbe cercarla) nel riferimento normativo linkato poco più su. Sul come si maturano e come si valutano invece c’è grande fermento, molte riflessioni, molte sperimentazioni e credo che sia una delle cose più profondamente innovative dal punto di vista epistemologico che stia attraversando in ogni angolo del pianeta la scuola, e dunque,  la società (per chi volesse approfondire: Philippe Perrenoud, Costruire competenze a partire dalla scuola, Anicia, Roma, 2010, tit. orig. Construire des compétences dès l’école, ESF, Paris, 2000, di cui trovate una piccola recensione di Enrico Bottero qui:  http://www.enricobottero.com/insegnare/wp-content/uploads/2013/11/Philippe-Perrenoud.Competenze-allievi1.pdf )
2.      Ancora sul titolo: le “competenze non servono a niente”. Esattamente il contrario, lo sforzo di definizione del concetto di competenza punta proprio a rispondere a una domanda: i saperi, nell’era della società della conoscenza, servono? E’ una domanda filosofica per eccellenza, che ci facciamo da secoli, quel che è mutato è il mondo e dunque la risposta si colora di altri significati. Questo non significa piegare all’utilitarismo Cultura e Sapere, ma cercare di declinare in chiave filosofica ed epistemologica non la scuola bensì il significato di “società della conoscenza”, perché è questa la novità. Tale significato si arricchisce a sua volta di sensi nuovi, vista la rivoluzione metafisica e gnoseologica che permea di se ogni angolo della Terra, che è il divenire, non l’essere: il Sapere e la Cultura non più come patrimonio fisso ma patrimonio in divenire, infatti non si sceglie un altro termine, Sapere, bensì Conoscenza, cioè l’atto, non l’oggetto. Il verbo, e chi l’agisce, e non il complemento oggetto. Si comprende bene la complessità e la moltitudine di conseguenze. E allora, per tornare alla frase iniziale: possiamo dire che il Sapere e la Cultura non servono a niente, non devono servire a niente, perché devono continuare a rimanere libere da ogni declinazione utilitaristica, mentre è proprio il concetto di competenza a venirci in soccorso,  a interrogarci su quali implicazioni (non strumentalizzazioni utilitaristiche) hanno Sapere e Cultura, o meglio, saperi e culture, con la vita stessa, individuale e collettiva, se tale vita oggi è definita come conoscenza (e non era mai accaduto prima, cioè che tutti, non le elites, potessero sedersi in modo pari, al banchetto delle formazioni e informazioni) e dunque in tal senso interrogarsi sul come gli individui, a prescindere da latitudini e longitudini, possano servirsene per vivere? Attenzione, servirsene non in chiave liberista, perché questo è il secondo equivoco, ma in chiave di cittadinanza attiva, cioè in chiave politica, cioè per prendere decisioni. E’ la sfera della libertà individuale nella responsabilità collettiva. Questo sono le competenze chiave. 



3.      Esiste la vita delle idee ed esiste la vita quotidiana, ed esiste la vita activa, di cui parlava la Arendt, cioè la partecipazione politica, le prime due cementate dai valori, da cui oggi nessuno si sente escluso, perché ti viene a scovare ovunque ti nascondi. Le tre cose, idee, vita individuale (e per chi scrive significa lavoro) e politica, sono unica cosa. Sapere, sapere fare e sapere decidere, per chi scrive, rientrano in un unico processo, senza sapere non c’è decisione e non c’è sapere fare e, viceversa, senza sapere fare, non c’è sapere. Mi piacerebbe discutere e ampiamente e in ogni sede, di questo assunto filosofico. Anche nella sua declinazione politica e sociale, perché le conseguenze sono parecchie e tutte da indagare insieme. Significa indagare il valore concreto dell’idea, vogliamo usare l’aggettivo organico? Significa riunire in un unico percorso homo sapiens e homo faber. Significa entrare nel terreno accidentatissimo del definitivo superamento della filosofia crociana che informato di se tutto il 900 per percorrere nuove vie. Concetti che si integrano con la definizione di “virtuale” (leggi digitale, leggi Levy). Possiamo discutere poi sulla opportunità o meno di superare la filosofia crociana, ma almeno fissiamo paletti comuni di confronto, non parole dette così a casaccio. Significa affrontare, essì, questo è,  in termini di cultura e riflessione politica il rapporto tra cultura e cultura del lavoro (la parte del faber nettamente separata dal sapiens), conflittuale nel 900. Conflitto che ha avuto valenze sociali, storiche, politiche, eccetera, eccetera, eccetera. Cosa c’entra tutto questo ragionamento con la scuola credo che sia chiaro a Settis. Quando il grande Visalberghi teorizza la scuola media unica è esattamente questa via quella che prepara. Quando la mai tanto osannata Montessori intuisce che la “manipolazione” favorisce gli apprendimenti, questo fa. “L’uomo pensa perché ha una mano”. O ha una mano perché pensa? Ha senso rispondere all’una o all’altra domanda? Pensare è agire, e agire è pensare. Vanno insieme, eppure per troppo tempo li abbiamo tenuti distinti, e anche in poche mani. Pensare e decidere staccati dall’agire e dal lavorare: ragioniamoci insieme e chiediamoci dove siano le vere radici delle diseguaglianze. . Semplicemente oggi si uniscono strade che secoli di storia culturale, sociale e politica avevano separato: il sapere dal saper fare. E tutti rientrano in questo processo. Vogliamo dare un nome e declinarlo in ogni classe e in ogni banco? Si chiama competenza. Le due grandi categorie dell’apollineo e del dionisiaco, illuminismo e romanticismo, idealismo e positivismo, il prevalere ora dell’una ora dell’altra categoria, oggi si fondono. O meglio, domanda: oggi si fondono? Di questo vorrei discutere ampiamente con Settis. Per forma mentis, sono architetto, non riesco a separare il Sapere dal saper fare e a dare ad entrambi pari dignità. Anche se conosco la dolorosissima “messa a terra dell’idea” e il mare periglioso che separa l’idea, dal suo progetto e dal suo farsi opera. Ma i tre momenti, professor Settis, secondo lei possono superarsi o separarsi? Possono tenersi separati? E, infine, una discussione così complessa ed epocale, me ne renda atto, può banalizzarsi nei termini di una trattazione cronacistica?



4.      Trasportiamo tutto questo nella scuola, per tentare di venirne a capo, perché di scuola stavamo parlando. Il mondo della scuola, come dicevo più su, a prescindere dai governi, da Renzi o da me o da Settis, sta vivendo con grande dignità devo dire e sola (il mondo accademico della ricerca educativa si guarda bene dall’entrare e vivere anche solo per qualche ora le classi ) questi mutamenti epistemologici e filosofici che riguardano l’umanità in questo momento, e come potrebbe esimersi, è lo spirito del tempo, non lo ferma nessuno. Lo Zeitgeist attraversa la società e la scuola è il più grande sottosistema sociale che esista. Paroloni? No, realtà. Il Sapere è fatto di saperi, le discipline, e fin qui ci siamo, ma oggi le discipline non sono più né monadi, né edifici con pareti in muratura, né cittadelle, come il positivismo migliore, e l’encyclopedie ad esso collegata, ci avevano abituato a considerare. I settori disciplinari, a cui larga parte dell’accademia è aggrappata mani e piedi come granchi allo scoglio, vivono ormai in astratto come entità distinte, in realtà, ma fuori dall’accademia sta accadendo altro. Sono frattali. E nemmeno quello. Sono soluzioni gassose. E nemmeno quello. Sono qualcosa che non riusciamo più a contenere nel libro di testo, anzi, nei diversi libi di testo, e nella classe e nemmeno nei processi, cioè nella trasmissione dei contenuti. E’ saltato tutto e alcuni fanno finta di non vedere e non capire, anche se è veramente difficile non vedere e non capire. Il concetto di competenza è una zattera in questo momento, in cui la formazione duella quotidianamente con la tempesta delle informazioni. Informazioni che mutano di momento e momento, recando con se, grande come l’universo intero il problema delle verità nella verità. Che non è la messa in discussione dei saperi, ma la capacità di governare la messa in discussione. Potevamo chiudere porte e finestre per evitare quel duello, ma ci è arrivato e ci arriva quotidianamente sulle gambe dei nostri studenti e delle nostre studentesse. Non sono isolati nel villaggio e intorno una foresta fittissima li separa dal mondo. No, sono immersi in quel flusso e ci sono nati e se ne sono fatti persino una ragione, quella zattera la guidano meglio di noi, ma la direzione? Esiste o forse no, un’etica del Sapere, che può permettersi di ignorare tempeste e contaminazioni, per motivi intrinseci e metafisici, ma esiste, e questo è solo un sì, un’etica dell’insegnamento, e questa non può ignorare nulla. 






5.      E’ un’idea perversa sostituire la parola “conoscenza” con “competenza”, come è stato fatto dai pedagogisti alla nostrana, consultati da Berlinguer e dalla Moratti” scrive Settis. Come detto sopra, e lo ridico, perdonate l’insistenza, il tema delle competenze non è nostrano, di “pedagogisti alla nostrana”, ma è internazionale, è un tema della ricerca educativa, fossi in Settis, o in altri, lo approfondirei (per un’indicazione: la banca data Eric interrogata alla voce “skills” ) perché è un tema molto ma molto fertile, oltre che precondizione per comprendere tanti indirizzi dei sistemi educativi sparsi per il globo, ma anche per comprendere direzioni del pensiero. La Comunità Europea alla fine degli anni 90 del secolo ormai passato, decide di autodefinirsi come “società della conoscenza”, questo non significa che l’utilitarismo cancellerà il sapere, ma esattamente il contrario, che il sapere informerà di se ogni ambito della vita, non solo individuale - e dunque di se e della propria cultura ciascuno può fare o non fare ciò che meglio crede – ma anche collettivo, e tra le grandi azioni collettive ci sono le azioni di cittadinanza e il lavoro. Significa che non l’utilitarismo ma la necessità di nuove consapevolezze vince. Vince cioè l’idea. Vince la consapevolezza che per la prima volta è il Sapere a permeare di se tutto, attraverso l’uso consapevole di una sapere sempre accresciuto e in divenire. Come si è tradotto i termini operativi nel sistema educativo europeo? Con due atti legislativi (Risoluzione Parlamento Europeo Lisbona 2000 e Raccomandazione del Parlamento Europeo 18.12.2006 ). Questi due atti normativi europei sono stati recepiti dall’Italia nel 2007. Se non ci convincevano era allora il momento di dire Brexit, non adesso. Chi scrive pensa che invece l’Italia abbia fatto bene a recepire, innescando un mutamento profondo, che già c’era e nessuno lo vedeva, o vede, e ho detto anche questo, mutamento e innovazione sostanziale che andava raccontata, evidenziata, mentre si è spesso affidato ai temi giuslavoristi il tema del mutamento nella scuola, beh, io sostengo che quel cambiamento profondo è già in atto da almeno 30 anni, al confronto del quale la “buona scuola” è un riflesso, lo dice bene Perrenoud nei suoi scritti. E’ stato confinato alla scuola primaria, unico segmento ad avere come docenti dei professionisti riflessivi, cioè insegnanti dotati di conoscenze pedagogico-didattiche oltre che disciplinari (leggere Donald Schon, Il professionista riflessivo, quanto mai attuale ). E ha dato i suoi frutti, se osserviamo che quel segmento è quello che, in termini di rilevazioni internazionali delle competenze, ci mette tra i migliori. Dunque, la strada intrapresa sulle competenze ha altre origini, ha una precisa visione, internazionale e comunitaria, e le scuole l’hanno già accolta e praticata, proprio iniziando a riflettere e a operare e a fare scuola con i significati e le forme della parola “competenza (fornisco un piccolo esempio di programmazione per competenze, fatta in un istituto comprensivo, anche per far capire al lettore di cosa stiamo parlando, : http://www.comprensivofrosinone3.gov.it/wp-content/uploads/2016/03/Appunti-per-una-didattica-delle-competenze-in-chiave-di-cittadinanza-1.pdf  , ma digitando “competenze chiave” ne troviamo centomila di declinazioni operative nelle scuole del termine competenza ). Per tornare all’inizio: il concetto di competenza comprende in se il concetto di conoscenza, non è separato, né in alternativa. E’, in parole poverissime, l’abilità di saper declinare in modo consapevole nella vita il sapere acquisito, non solo è una forma di acquisizione della conoscenza, e qua, signori miei, siamo in terra montessoriana, non liberista, dunque tale sapere, e tale sapere esperito,  in qualche modo li si deve acquisire, a scuola o altrove (il 65% delle conoscenze di un tredicenne non ha fonte formale, cioè scolastica), ma soprattutto, ed qua che entra in scena l’insegnante, la guida, lo si deve saper organizzare, è dunque l’organizzazione della conoscenza, la riflessione sulla conoscenza, che è una competenza, la capacità che dobbiamo favorire nei nostri studenti, sì o no? E tale competenza, fatta di conoscenza ma che non risolve in essa, come altre competenze, la si deve maturare a scuola, non fuori della scuola, e poi accrescere progressivamente lungo l’arco dell’esistenza. Dunque non conoscenza vs competenza, ma conoscenza e competenza. Senza conoscenza non esiste competenza. E senza competenza non esiste conoscenza, la profezia di Maria Montessori si è avverata. Lungo il Novecento quelle intuizioni si sono arricchite di altre acquisizioni di pensiero connesse ai processi di insegnamento e apprendimento, dalle riflessioni sulle intelligenze multiple, alle scoperte neurologiche, che hanno messo in connessione definitiva mano e memoria, a quelle psicologiche sul ruolo dell’intelligenza emotiva nell’apprendimento e nel comportamento. Tutto concorre a modi diversi di fare scuola, di fare cultura, di produrre conoscenza, che non può più limitarsi al sapere e ai saperi e si accompagna al produrre, al cooperare, al condividere, al risolvere, al riflettere, all’organizzare, al creare. 




Un tempo alla scuola, all’università bastava fornire la conoscenza, o meglio, bastava trasmettere un patrimonio organizzato di saperi: “ se so, so fare”, grande equivoco. Il saper fare (sospendiamo per adesso l’approfondire le ragioni del pregiudizio ideologico nei confronti del saper fare esercitato dal mondo del sapere, fortissimo ancora oggi dentro il mondo accademico, un pregiudizio tutto crociano, elitario, padronale nel senso negativo del termine, che ha voluto sempre tenere perfettamente separati il mondo del sapere da quello del saper fare, pregiudizio che puzza di diseguaglianza nei confronti del quale chi scrive ha sempre nutrito aperta ostilità, convinta come sono che il più grande strumento per abbattere le diseguaglianze sia la conoscenza, quando essa però si accompagni alla virtù, cioè ai valori) era demandato a un momento successivo al tempo della formazione. Per cui la scuola era una parte della vita, il fare, in termini di lavoro, ma anche di vita vissuta, era un’altra parte dell’esistenza. Ma ciò oggi è impossibile da praticare. Già un altro visionario anticipatore della società della conoscenza, Dewey, cento anni fa diceva che l’istruzione non è parte della vita, ma la vita stessa. Oggi, in un’epoca in cui sapere e saperi mutano continuamente, è necessario apprendere lungo l’arco della vita intera, oggi, in un’epoca che gira tutta intorno alla conoscenza, è necessario mettere a frutto consapevolezza dell’apprendimento e uso dell’apprendimento, senza che ciò pregiudichi il valore o la qualità dell’apprendimento stesso, ma che sia in grado anche di metterlo in discussione con consapevolezza, affinchè l’ipse dixit non si trasformi in un “ma che cavolo sto dicendo”? O anche “non ho nemmeno compreso quel che ho votato”. Mi pare che non sia un problema liberista, ma un un problema che investe in pieno il significato di cittadinanza e di polis. Ecco, gli strumenti per maturare tale capacità si chiamano competenza e tali strumenti, io, docente, voglio che si maturino a scuola, non altrove. Perché tanto più darò valore culturale a tali strumenti tanto più gli individui che crescono saranno in grado di essere cercatori di idee, produttori di idee e padroni di idee, sempre, tutta la vita, non guardiani di macchine, magari con grandi bagagli conoscitivi, ma incapaci di agire in un mondo di macchine, incapaci di guidare le macchine.


6.      Cada dunque definitivamente l’idea  che le competenze siano sapere specialistico. Era il positivismo e la divisione in settori disciplinari di tutta la conoscenza ciò che promuoveva le specializzazioni. Anche qui, quanti equivoci. Le discipline sono specialistiche per forza di cose, e va benissimo che lo siano, i tuttologi sono da osservare con sospetto, lo diceva già Gramsci, perché vanno per approssimazioni, non per approfondimenti. Ma le competenze sono tutt’altra cosa che specialismi, perché sono capacità meta cognitive, trasversali al sapere disciplinare, sono capacità. Saper risolvere un problema della vita quotidiana non è sapere specialistico,  è applicare il sapere a problemi, e farlo con l’ausilio dei saperi specialistici (che siano le singole materie scolastiche, se trattiamo di cose generali, o che siano i singoli insegnamenti specialistici, se parliamo di ambiti specifici: cosa ad esempio che fa Settis quando si accinge a risolvere il rebus della modalità di restauro di una cinta muraria ), insegnamenti che non sono dati una volta per sempre, ma devono accrescersi e acquisirsi lungo l’arco della vita; tutto questo è una competenza maturata e maturabile. No, non sono contro gli specialisti, significherebbe essere contro le conoscenze sempre più approfondite e libere che poi “con competenza” posso applicare ai singoli problemi. Mi ostino a invitare tutti quanti a evitare massimizzazioni che fanno il paio con banalizzazioni. La grande scuola italiana si basa sugli apprendimenti, su un robusto sistema di saperi trasmessi e sugli specialisti, non li rinnegherei per nulla al mondo, perchè su questo suo trasmettere e accrescere conoscenze in modo approfondito si fa metodo. A questo edificio solidissimo dobbiamo dare anche le ali: cioè le capacità di organizzare e riorganizzare e usare i propri specialisti all’interno di un quadro generale di altre competenze in un mondo in veloce divenire. Dare le ali per non precipitare, come al castello errante di Howl. E i nostri figli non ne avranno per nessuno. Direi di più: lo abbiamo insegnato anche ai figli del mondo, attraverso quei pedagoghi nostrani che Settis sta enormemente sottovalutando, lo abbiamo inventato noi il concetto di competenza, con Maria Montessori. Magari formulato allora in altro modo. L’istruzione non è parte della vita né avulso dalla vita. E’ la vita stessa. E con la vita finalmente si mischia. Quanti, quanti equivoci, quanti problemi di lessico e quante declinazioni via via confuse dei processi conseguenti a quelle mancate precisazioni terminologiche. Eppure, notizione, le maestre e i maestri d’Italia, pedagogisti di casa nostra, lo han compreso e lo stan facendo, rimane da raccontarlo e mostrarlo al Paese, e ai cosiddetti “disciplinaristi”, agli “specialisti”; di grazia, Settis come si autodefinisce? E’ facilmente dimostrabile e le evidenze empiriche lo confermano come gli apprendimenti migliorino con le didattiche per competenze; maturano meglio nel fare, nelle contaminazioni, nelle trasversalità, nelle osmosi, nel virtuale, nulla togliendo al necessario e ineludibile approfondimento delle discipline. Oggi come sempre, l’obiettivo di un insegnante quello è: migliorare gli apprendimenti, che siano conoscenze e/o competenze.





7.      Come si risolve la Babele intorno alla scuola riguardo questi temi, oggi che finalmente la scuola è argomento di confronto collettivo ed è uscita da quell’isolamento in cui si era ed era stata confinata per decenni? In un modo semplice: studiando, studiando, studiando, e raccontandole meglio le cose, sia che siamo addetti ai lavori, sia che  stiamo facendo informazione, o riflessione. Per farlo “con cognizione di causa” bisogna però studiare e studiare e studiare, per acquisire un lessico comune e condiviso e, dopo averlo fatto, confrontarsi in modo obiettivo sui temi. Allo stato attuale siamo lungi dal confrontarci su idee diverse in modo obiettivo, perché mi pare di capire che siamo ancora nella torre di Babele e perché troppi argomenti eteronomi vizino il dibattito. Mi piacerebbe molto discuterne con Settis. Ma anche col tabaccaio sotto casa, snocciolando in modo comprensibile a tutti le questioni, per un’etica comune che è anche etica del linguaggio e che deve spingerci tutti a raccontare e raccontarsi per capire e far capire. E questo ho provato a fare e proverò ancora.